2018 - 11 - 24: Dott. Marco Scalabrino: Giovanni Formisano: una vita cantata sulle corde del cuore
Sabato 24 novembre 2018 alle ore 18.25 nella sala delle riunioni dell'Associazione per la Tutela delle Tradizioni Popolari del Trapanese sita in Trapani via Vespri 32 si è svolto il settimanale incontro previsto dal calendario delle attività del XXXII Corso di cultura per l'anno 2018.
Sostituendo il Dott. Bongiovanni che per impegni inderogabili non ha potuto essere presente ed anticipando il suo intervento previsto per sabato 15 dicembre p.v. ha relazionato il Dott. Marco Scalabrino che, non nuovo alle attività culturali del sodalizio, è stato collaborato nella lettura ed interpretazione delle poesie di Giovanni Formisano inserite nel corpo della sua relazione dal Signor Alberto Noto.
Il Presidente Prof. Valenti, dopo l'apertura dei lavori ed i saluti di benvenuto ai presenti ed agli ospiti ed una breve presentazione dell'oratore gli ha ceduto la parola.
Marco Scalabrino, trapanese, che oltre ad essere autore di varie pubblicazioni, aver collaborato con vari periodici culturali cartacei ed in rete, nazionali ed internazionali, si interessa dello studio del dialetto siciliano, di saggistica ed ha tradotto in siciliano ed in italiano vari autori stranieri contemporanei.
Si riporta di seguito ed integralmente, in quanto gentilmente resa disponibile, la relazione della serata che è stata integrata anche dalla proiezione di alcune diapositive a documetazione della personalità del poeta siciliano Giovanni Formisano.
'' Giovanni Formisano di Marco Scalabrino
CIATUZZU MIU
Tu si’ arrivata nna l’età cchiù bedda
‘n cunfruntu a mia si’ ancora picciridda;
semu la strata dritta e la vanedda,
iù sugnu la nuttata e tu la stidda.
Tu si’ lu focu ardenti e iù l’astedda,
lu lumi ca s’astuta e la faidda,
sugnu lu chiantu e tu la risatedda,
sugnu la nuci e tu si’ la nucidda.
Tu si’ na rosa mmenzu na ciurera,
e iù sugnu l’ardica sularina,
sugnu lu ‘nvernu e tu la primavera.
Ti si’ la matinata quannu spunta,
lu suli ca s’affaccia a la matina
e iù sugnu lu suli ca tramunta!
Catania, fra il 1880 e il 1920, pullulava di quotidiani (ben quattro) e di periodici (più di cento) la gran parte dei quali umoristici.
Alcuni ebbero una fortuna incredibile, vedi il D’Artagnan di Martoglio, La Tarantola di Corsaro, il Ma chi è? di Ruvolo e Boley, Il Lei è lario di don Licchittino. Fra essi si punzecchiavano di continuo, ma soprattutto prendevano di mira i personaggi più in vista; divertendosi e divertendo.
Non di rado avveniva che poeti-collaboratori della stessa testata si verseggiassero contro; alle volte in modo feroce, spesso in maniera leggera.
Un esempio: il buon Francesco Romeo Corsaro e l’altrettanto buon Gaetano Cristaldi Gambino si prendono una “cottarella” per due sorelle, Elvira e Maria Catania e dal loro giornale, La Tarantola, le omaggiano di due sonetti. Alle due poesiole ecco, per estratti, la pronta scuncicata di Giovanni Formisano,
a Cicciu Romeu Cursaru:
ora ca sacciu pricchì si’ malatu / ti dicu, frati miu, ca si’ minchiuni./
Po’ scriviri, si voi, pri ‘n annu sanu, / po’ fari puisii di nova mora, /
ma t’arresta … la pinna ntra li manu;
e a Tanu Cristaldi Gambinu:
Ora ti visti, ccu ss’occhi nfunnati, / ssa facci fracca e ccu ss’aspettu tristu; / mancu t’arridducisti a na mitati /
e cchiù ti vardu e cchiù mi pari ‘n Cristu. / È tempu persu ca fai lu scrivanu, / resti pinsannu a lu tempu passatu / e comu a Cicciu ccu la pinna a manu.
Figuriamoci se il Cristaldi Gambino non rispondesse subito e a tono. Se ne ripropone solo una sestina:
Iù comu cugnu ‘i porta, frati miu, / dugnu sustegnu e appoggiu a tutti banni / e a tutti banni fazzu lu me Diu.
Ma tu c’ha’ fari, poviru Giuvanni, / tu bonu p’arragghiari ‘n puisia; / te’ cca, sta pinna ti la dugnu a tia.”
Per la cronaca, allorché si svolgevano questi fatti, correva l’anno 1899. Sfogliando i giornali dialettali catanesi dei primi del secolo scorso s’incontra spesso il nome di Giovanni Formisano, il quale, nel settembre del 1906, firmandosi con lo pseudonimo di Mennula amara, ebbe a proporre dei dubbi al popolarissimo Carmelo Messina.
Dubbio definisce Giuseppe Pitrè quel “componimento popolare in ottava siciliana, con il quale un poeta propone dei quesiti a un altro poeta, dal quale, in altra ottava, riceve una risposta quasi nelle stesse rime”,
Per il carattere ludico, i dubbi, come le sfide, i contrasti e le nniminagghi, erano di grande richiamo per il popolo e venivano recitati nelle piazze durante le feste, assumendo spesso forma di scontri per la supremazia poetica. Se ne trae un esempio dal volume Sfide, contrasti, leggende di poeti popolari siciliani, per il quale i dubbi della nostra tradizione sono giocati tutti o sulla dilogia (doppio soggetto, uno reale e uno apparente) o sul calembour o chiapperello (da chiappare a volo, attraverso un qualsiasi riferimento o bisticcio);
è lu Dottu di Tripi che propone:
Dimmi cu’ vivi acqua e piscia vinu, / dimmi cu’ ti saluta di luntanu, /
dimmi cu’ senza pedi fa caminu, dimmi cu’ si currumpi e sempri è sanu.
E Petru Fudduni, a tono, risponde:
La viti vivi acqua e piscia vinu, / l’amicu ti saluta di luntanu, /
la littra è senza pedi e fa caminu, / lu mari si currumpi e torna sanu.
E ribatte lu Dottu:
Cu’ filau la prima stuppa? / Cu’ fu ca maniau la prima zappa? /
Cu’ fici la galera senza puppa? Cu’ è lu pisci chi ‘ntra la riti ‘ncappa?
E replica Fudduni:
Eva fu ca filau la prima stuppa; / Adamu maniau la prima zappa;
La donna è la galera senza puppa; / L’omu è lu pisci chi ‘ntra riti ‘ncappa.
Un classico esempio di calembour è quello legato all’incontro fra Antonio Veneziano e Lu Vujareddu di li Chiani.
Domanda il primo: Cchi farriti, cchi farroggiu, chi farraju?
E risponde il secondo: Corda fa riti, ferru fa roggiu, suli fa raju.
Il nome di Petru Fudduni, un umile pirriaturi, cavatore di pietre, ha percorso i secoli perché del suo tempo fu il poeta popolare più famoso di Sicilia.
Nacque a Palermo agli inizi del sec. XVII e morì il 22 marzo 1670. Emerse come poeta improvvisatore impegnato in ogni angolo dell’isola in vittoriose tenzoni con altrettanto fantomatici bardi isolani, poco provati come il “Dotto di Tripi” o Lu Vujareddu di li Chiani, storicamente documentati come Pietro Pavone di Catania.
In realtà il dotto di Tripi, come afferma anche il Pitrè, non è mai esistito, è una invenzione popolare che personifica il sapiente utilizzato nei contrasti dai poeti; oppure — dice il popolo — fu un grande poeta, ma nessuno sa chi sia stato.
Antonio Veneziano viceversa (Monreale 1543 - Palermo 1593) incarna la voce più alta della poesia siciliana del Rinascimento (il Libru secundu di li canzuni amurusi siciliani et alcuni di sdegnu custodisce ben 312 sue Canzuni).
Conoscere il clima storico-culturale, nel quale Giovanni Formisano si formò e si mosse, ci aiuterà a comprendere meglio. Tra la fine degli anni Venti
e la seconda guerra mondiale, per la condizione dell’uomo costretto a rinunciare ai suoi valori più autentici quali la libertà e la dignità, la poesia siciliana si chiude in una torre d’avorio dove le passioni tacciono e il rifugio nella forma, la versificazione luminosa ma esteriore, il ritmo sapiente, e per contro l’indifferenza per il contenuto diventano fatti ineluttabili:
Saro Platania non scrive più; Vito Mercadante è isolato e pedinato; Francesco Trassari rimaneggia ma non stampa; Alessio Di Giovanni continua discreto a portare avanti la sua opera. Di parecchi dei fuoriclasse del tempo Giovanni Formisano è stato coevo e con tanti di loro è stato in rapporti.
Giovanni Formisano e Vito Mercadante, sindacalista e antifascista, poeta e autore di Focu di Muncibeddu, si conobbero.
Formisano dedicò “A Vito Mercadante” la poesia di Campani, ricompresa nel volume Canzuni senza patri e senza matri del 1934, Vito Mercadante dunque, Prizzi 1873 – Palermo 1936, ancora a quel tempo vivente.
Vincenzo De Simone ebbe i natali a Villarosa (EN) ma visse a Milano, dove esercitò la professione di medico odontoiatra. Autore del sonetto Lu me dialettu, tutt’oggi rinomato, il Formisano lo omaggia del testo Nostra ‘gnura Matri, la Muntagna, incluso nella raccolta Quattru vampugghi.
La loro conoscenza è distintamente comprovata dal contenuto e dal tenore del testo:
ti vinni a circari / e ti purtai un vasuni di luntanu … mi paristi un Santu.
E la lista si potrebbe infoltire con i nomi di Luigi Pirandello, di Vito Marino, di Carmelo Molino, eccetera. Ma anche con quello di Peppino Caleca, poeta e mecenate di Castellammare del Golfo (TP), promotore e organizzatore nella sua città, fra gli anni Cinquanta e Novanta, di frequenti gloriosi raduni regionali, a uno dei quali, peraltro, Giovanni Formisano ebbe a presenziare.
Riportiamo, in proposito, la testimonianza di Francesco Leone.
“Lo ricordo benissimo. In una mattina d’agosto, dopo il tragitto su una imbarcazione a motore dalla cala di Castellammare a quella di Scopello, lo vidi che si ergeva statuario, imponente (occhi vivi, al collo il suo classico fazzolettone a mo’ di cravatta) su uno degli scogli della costa, con dinanzi il suggestivo scenario dei faraglioni. Sotto il cielo terso e il sole splen dente sul mare, lo sentii declamare alcune delle sue fascinose poesie, circondato da un folto nugolo di appassionati ascoltatori plaudenti. In paese, nel pomeriggio, sul palcoscenico della gremita Arena delle Rose, risuonò applauditissima la sua già celebre mattinata E vui durmiti ancora”.
Il gruppo degli amici del Poetico Salone, una sala da barbiere di cui era titolare Giuseppe Gemmellaro, era al centro di San Cristoforo, angolo via Testulla, a Catania. Oltre che da Salvatore Camilleri, da Francesco Guglielmino, da Serafino Giuffrida e da altri, esso era frequentato da Giovanni Formisano. Per qualche tempo fu quello il loro luogo d’incontro. Poi Formisano riuscì ad avere dei locali in via Carcaci, le riunioni divennero serali, e nel 1944, a Catania, fu fondata l’Unione Amici del Dialetto, della quale Giovanni Formisano divenne presidente.
A quel tempo erano viventi molti poeti della polis dialettale catanese e fra loro: Giuseppe Nicolosi Scandurra, Vito Marino e Santo Battiato. Nel frattempo la corrispondenza con i poeti palermitani si era fatta frequente, soprattutto con Pietro Tamburello, Miano Conti e Paolo Messina. Le parole d’ordine che animavano le loro lettere erano: svecchiamento e rinnovamento.
Fu in quel periodo, era il 1945, che l’Unione Amici del Dialetto, presieduta come detto da Giovanni Formisano, invitò a Catania i poeti palermitani,
guidati da Federico De Maria. Fu un incontro che ebbe un concorso di pubblico straordinario: ben cinquemila persone affollarono il Palazzo Chierici.
Tuttavia, “Non si discusse pubblicamente dei problemi della poesia siciliana, anche perché l’Unione Amici del Dialetto non aveva problemi, seguiva ciecamente la tradizione.
I problemi li avevano i Trinacristi e li discussero separatamente col De Maria, col Tamburello, con Paolo Messina.”
I Trinacristi, per inciso, furono Salvatore Camilleri, Mario Biondi, Enzo D’Agata, Mario Gori ed altri, che già appartenenti all’Unione Amici del Dialetto se ne distaccarono.
Giovanni Formisano, è stato appena ribadito che “l’Unione Amici del Dialetto seguiva ciecamente la tradizione”, non ebbe dunque alcun ruolo diretto,
non fu tra i paladini di quel movimento formato prevalentemente da poeti catanesi e palermitani che, tra il 1945 e il 1958 circa, segnò la stagione appellata Rinnovamento della poesia dialettale siciliana.
Per di più, non fosse altro che per motivi anagrafici (Formisano era nato nel 1878), egli non è annoverato fra i poeti della “generazione del ’90”: Saru Platania, Alessio Di Giovanni, Francesco Trassari, Alessio Valore e qualche altro, dei quali Giorgio Santangelo parlò quale “Nuova scuola poetica siciliana”.
Ciò nondimeno l’episodio della pubblicazione di una lirica di Paolo Messina (PA 1923 – 2011, autore che avrebbe rivoluzionato il modo di poetare in Sicilia), benché in verità da accreditare ad Aldo Grienti che la pubblicò sui fogli letterari catanesi Torcia a ventu e La Sorgiva del 1946-1947, si è rivelato, col senno di poi, un importante passo di collegamento fra il gruppo del quale lo stesso Formisano era il leader e quella incomparabile stagione.
Molteplici sono stati nel tempo i momenti di celebrazione dell’opera e della figura di Giovanni Formisano.
Nel 1937, a cura di Vincenzo De Simone e Giuseppe Pedalino Di Rosa, esce il tomo Strenna della poesia dialettale siciliana.
Dedicato “agli emigrati di Sicilia che in ogni parte del mondo si mantennero italiani per avere sempre parlato il caro idioma della materna terra”, esso riunisce i testi di circa trecento poeti allora viventi, tra cui Ignazio Buttitta, Alessio Di Giovanni e Giovanni Formisano.
Nino Pino Balotta nel 1977, unitamente a Biagio Scrimizzi, cura un programma settimanale trasmesso dalla Rai Regionale Siciliana sul tema L’Amore nel canto, nella poesia e nella letteratura siciliana.
Nel 1979 poi ne compendia la parte letteraria nel saggio Amori di Sicilia. In esso trova adeguato spazio il testo di Giovanni Formisano Scrissi lu nomu to, che Nino Pino introduce con questa premessa: “Quante delicate sfumature di sentimento nel compiuto lirismo di questo sfaccettato canto d’amore”.
non si cassa mai nsina
A venticinque anni dalla scomparsa nel pezzo Ricordando Giovanni Formisano, Turiddu Bella ci gira la sua testimonianza: “Il 20 dicembre 1987, nel Teatro Ambasciatori di Catania, venne commemorato il poeta Giovanni Formisano. Il professore Santi Correnti ha rievocato le doti artistiche, le vicissitudini umane e la bravura poetica del Formisano.”
Francesca Romana Puglisi nel trentennale della scomparsa del Nostro, il 1992, ricorda che Giovanni Formisano è stato una persona semplice e modesta, che sconosceva la boria, la superbia e soprattutto non aveva il culto di sé. Diverse sue liriche sono state accolte in antologie, di cui qualcuna assai qualificata quale L’isola del sole di Luigi Sorrento, del 1925, filologo siciliano che insegnava all’Università Cattolica di Milano”.
Riferiamo adesso qualche cenno biografico circa Giovanni Formisano. Nacque a Catania il 24 ottobre 1878 da Lucia Platania e Davide Formisano, si diplomò all’Istituto Tecnico Commerciale di Catania e fu, quindi, titolare di un negozio di materiali edili che ebbe sede in via Antonino di San Giuliano.
Sposò Maria Polano di Sassari e dal loro matrimonio nacquero Davide, Lucia e Alba. Fu vicedirettore del giornale satirico Lei è lario e scrisse anche per altri periodici, fra i quali Il Marranzano, Torcia a ventu, D’Artagnan e Po’ t’ù cuntu.
Fu scrittore di canzoni siciliane fra le quali: E vui durmiti ancora, Luntananza, Prijeri persi, Varcuzza abbannunata, A me matri e Sirinata. Morì a Catania il 22 dicembre 1962.
La sua produzione letteraria per quanto concerne la poesia, la quale gli venne dettata dal canto sincero dell’anima, si articola nei seguenti volumi:
Mennula amara del 1905, Carizzi di tula del 1907, Jurnati senza suli del 1920, Canti di terra bruciata del 1927, Canzuni senza patri e senza matri del 1934, Setti lacrimi del 1941, Vecchi cicatrici del 1951, Campani di la Virmaria del 1955.
Scrisse inoltre la raccolta di novelle Malati senza frevi del 1958 e, per il teatro, le commedie: VEDI FOTO 3 Matrimoni e viscuvati e Abbasso le signorine, del 1921, nonché, postuma, Impiega servi.
Le sue commedie affrontano, in chiave satirica, temi sociali.
“La vis comica che scorre nelle sue commedie, infatti, non è fine a se stessa, bensì è venata di sfumature dai toni ora dolci ora amari, che spingono alla riflessione. Per la prima volta nel teatro siciliano, Giovanni Formisano affrontò i problemi della donna”.
Sia in Matrimoni e viscuvati, quanto nelle altre sue commedie, Abbasso le signorine e Impiega servi, l’autore precorre decisamente i tempi, delineando, si era – pensate – nel 1921, il personaggio della donna lavoratrice, Donna Pudda, che rivendica i propri diritti e che trova eco nella donna di oggi.
Attento osservatore, di sicura dimensione veristica, egli si guardava attorno, osservava uomini, vicende e cose, che poi raccontava nei suoi versi e nelle sue commedie.” Sin dal suo esordio con Mennula amara, del 1905, il Formisano si rivelò poeta sentimentale, appassionato, schietto, ma anche amaro e, perfino, ironico.
I temi da lui privilegiati sono quelli comuni alla poesia d’amore di tutti i tempi: l’esaltazione della bellezza ammaliatrice della donna amata, il duro cuore di lei, le indicibili pene che ella procura al proprio innamorato non corrispondendolo, le schermaglie amorose, la gelosia, lo sdegno, l’odio e il disprezzo per una donna infedele.
Definito “Il vero poeta dell’amore della prima metà del Novecento catanese, dal punto di vista dei contenuti e della tecnica, egli ci appare poeta monocorde, sovrabbondante, ripetitivo, ma dalla versificazione scorrevole e musicale. Il suo dialetto è semplice, immediatamente comprensibile,
pressoché esente da ricercati arcaismi linguistici”.
E FUSTI DI PAROLA
O tu o nuddu! E fusti di parola,
schetta ristasti pri l’amuri miu;
ora si’ granni e nuddu ti cunsola,
ti dasti tutta a la prijera e a Diu.
Fu lu distinu, l’amaru distinu,
ca pri capricciu vosi d’accussì,
tu, bona, sichitasti lu caminu
sula sulidda e sempri sula si’.
Ora si’ tutta janca, c’è la manna
supra ssa testa ca fu tutta brunna,
tu si’ lu chiovu miu, la me cunnanna,
si’ la me pena, la me pena funna.
Tutti li voti ca ti ncontru ‘n chianu
iù fazzu finta ca non mi n’addunu,
ma ti vurrissi vasari ssa manu,
vurrissi dumannariti pirdunu.
Ogni tantu mi guardi e poi suspiri
e jisi ss’occhi c’astutati su’,
mi guardi comu su vurrissi diri:
ti binidicu ma ci curpi tu.
Eri a la missa, prigavi a lamentu
ccu ss’occhi chini di malincunia,
e sugnu certu ca na ddu mumentu
prigavi a Cristu pr’aiutari a mia!
Quasi a volerci raccordare con la nota di apertura, c’è da registrare che: “Negli anni che vanno all’incirca dal 1929 al 1936, la poesia dialettale subì una forte battuta d’arresto. Il regime fascista, ritenendoli elementi disgregatori della raggiunta unità nazionale, intraprese una campagna contro i dialetti.
In seguito a tale politica dialettofobica, negli anni Trenta, furono costretti a chiudere tutti i giornaletti che si occupavano di letteratura dialettale: a Catania, nel ‘33, Lu marranzanu di Serafino Giuffrida e, nel ’36, il Lei è lario di Nino Di Nuovo, don Licchittino; uscivano entrambi il sabato sera con le poesie e con i numeri del lotto.
La stessa sorte toccò, a Palermo, al quindicinale Po’ tu cuntu, diretto da Peppino Denaro, e al mensile La trazzera, di cui era condirettore Ignazio Buttitta. Costretti a segnare il passo i poeti dialettali continuarono a scrivere versi pubblicandoli alla macchia. Solo molti anni dopo, siamo nel giugno del 1944, uscì, con sede redazionale in Salerno, il primo numero di Rinascita, rassegna di politica e di cultura italiane diretta da Palmiro Togliatti.
A pagina sedici di quel fascicolo una lunga poesia in dialetto siciliano intitolata Primu Maggiu. Eccone i versi iniziali:
Dopu vintiduanni / di duluri, di spasimi e di peni / torni cchiù russu / cchiù beddu e cchiù granni / nautra vota veni!
Autore ne era il poeta catanese Giovanni Formisano.
E vui durmiti ancora
Lu suli è già spuntatu di lu mari
e vui, bidduzza mia, durmiti ancora,
l’aceddi sunnu stanchi di cantari
e affriddateddi aspettunu cca fora,
supra ssu balcuneddu su’ pusati
e aspettunu quann’è ca v’affacciati.
Li ciuri senza vui non ponnu stari,
su’ tutti ccu li testi a pinnuluni,
ognunu d’iddi non voli sbucciari
su prima non si grapi ssu balcuni,
dintra li buttuneddi su’ ammucciati
e aspettunu quann’è ca v’affacciati.
Lassati stari, non durmiti cchiui,
ca ‘nzemi a iddi, dintra a sta vanedda,
ci sugnu puru iù, c’aspettu a vui
pri vidiri ssa facci accussì bedda,
passu cca fora tutti li nuttati
e aspettu sulu quannu v’affacciati.
E vui durmiti ancora, lirica alla quale il nome di Giovanni Formisano è indissolubilmente legato, musicata da Gaetano Emanuel Calì, merita una esclusiva ribalta.
Sergio Sciacca la definisce “trobadorico deferente rispetto della signora amata” e Salvatore Puglisi così ne discorre: “Apparsa intorno agli anni Dieci,
sul giornaletto dialettale catanese Lei è lario, diretto da don Licchittino, e finita in mano al giovane musicista catanese Gaetano Emanuel Calì, E vui durmiti ancora venne da lui rivestita di note musicali non meno cariche di sentimento di quello che si sprigionava dai nudi versi.
Portata in giro in Italia e all’estero, essa divenne una delle più rinomate e appassionate romanze del repertorio popolare siciliano”.
Nel 1910, dunque, Gaetano Emanuel Calì ebbe modo di leggere i versi del suo concittadino. La bellezza del testo lo colpì a tal punto che, in una notte,
ne compose lo spartito per musicarlo.
Indicazioni circa la genesi e l’evoluzione del brano si possono peraltro desumere dal testo che Formisano dedica “A Gaetano Emanuel Calì”.
“La musicasti cinquant’anni arreri”, afferma il poeta.
I componimenti della sezione del libro nella quale questo testo è contemplato, Quattru vampugghi, sono sottotitolati nisciuti di lu chianozzu pocu tempu arreri. Appurato che del volume Campani di la Virmaria questa è l’ultima sezione, che la sezione appena precedente attiene alla produzione fino al 1951, che la prima edizione del libro è datata 1955, volendo intendere l’espressione cinquant’anni arreri con un certo margine di oscillazione, troviamo la conferma di quanto asserito da Salvatore Puglisi, ovvero che la poesia è apparsa “intorno agli anni Dieci”.
Apprendiamo, inoltre, che “la musicasti in terra furastera”, a Malta appunto o comunque nel tragitto da o per Malta, che quel canto ebbe grande successo e diffusione, “vulò pri munti e mari, / vulò luntanu”, che infine, in sintonia col suo animo, essa “vinni duci e vinni amara, / comu a sti lochi daccussì ‘nfatati, / comu a stu focu astutatu, sta sciara, / comu lu ‘ncantu di sti matinati”.
Al Teatro Sangiorgi di Catania, la soprano Tecla Scarano chiese una sera al musicista, che in quel tempo era il direttore artistico del teatro, di potere cantare quel brano. L’esecuzione della Scarano fu tale che il pubblico entusiasta si innamorò subito della canzone.
Malgrado tutto ciò la canzone dovette attendere il 1927 per essere incisa, a Firenze, presso lo studio Mignani. Nella Rivista Storica Siciliana, Santi Correnti cita un singolare episodio: “Sul fronte della Carnia, durante la prima guerra mondiale, una sera, al chiaro della luna, un giovane soldato siciliano intonò la canzone. Il silenzio che aleggiava dava voce solo alle note della mattinata. Al termine dell’esecuzione si sentirono le espressioni di apprezzamento degli avversari austriaci: non arrivarono a capirne il senso, ma rimasero incantati dalla bellezza della musica”.
Catania ha voluto onorare il suo insigne figlio dedicandogli una via cittadina e un monumento bronzeo in piazza Angelo Maiorana.
Su progetto degli architetti Ivo e Marco Celeschi e realizzato da Giancarlo Giunta con la collaborazione di Camillo Sapienza, questo è a forma di libro aperto: vi campeggia il busto di Formisano e vi vengono riprodotti di fronte il testo di E vui durmiti ancora e sul retro, a destra, il testo di A la me muntagna e a sinistra, quello di Quann’è ca la vasati.
Quann’è ca la vasati chi vi dici,
l’occhi li jisa ancora duci duci?
E nna ssi vrazza si senti filici,
la vucca ancora a longu la cunnuci?
Quann’è vicinu a vui, comu si senti,
ca s’abbannuna e vi casca davanti?
Campani di la Virmaria, volume del 1955, riunisce una selezione delle sue poesie già edite nei lavori dal 1905 al 1951, nonché un esiguo drappello di altri componimenti. I testi sono stati scelti personalmente dallo stesso Formisano, il quale, classe 1878, all’epoca aveva già settantasette anni.
Pur gradevolmente conscio della fama acquisita, mi tegnu st’onuri ca ci haju, egli si rende ben conto che i suoi anni aggravaru e che è giunta l’ora di lasciare lu postu a li picciotti.
Posto che anche il titolo sia stato frutto di sua scelta, in una sorta di autoritratto in età avanzata, lo stesso Giovanni Formisano ci svela di prima mano il suo animo, quella di uomo retto, genuino, sognante:
sugnu tuttu di ‘n pezzu e senza spini, / sugnu a la fini di lu me viaggiu /
e sugnu fattu di chiddi latini / ca non sunnu ‘nzitati a lu sarvaggiu. /
Pri la svintura mia sugnu pueta, / campu di sonni duci e sonni amari …
‘n cozzu di pani duru, na chitarra, / ‘n bummuliddu ccu l’acqua appisu ‘n chianu, /
lu mari di vicinu ca mi parra, / la luna ca mi vasa di luntanu. /
Na casa a crudu, ccu du’ cammareddi, / accarizzata di tutti li venti, /
in cumpagnia di ciuri e di l’aceddi, / luntanu di la fudda e di li genti ...
su’ tutti li ricchizzi di lu munnu / su’ tutta la me vita!
E, in tutta umiltà e senza reticenza, allontanandolo da sé, demanda ogni merito della sua creatività alla fata janca:
Iù scrivu e nenti mettu di lu miu, / ci mettu carta, pinna e calamaru /
e poi sta fata janca, ca non viju, / mi fa duci l’amaru ...
E scrivu a longu, scrivu comu un pazzu, / scrivu pri ‘ngnornu sanu /
nzoccu m’addetta sempri sta carusa / ch’è mannata di Diu /
ca li pueta chiamanu la Musa!
La copia di Campani di la Virmaria in nostro possesso è la ristampa Edizioni Greco – Catania 2000.
Francesca Romana Puglisi e Sergio Sciacca la corredano di preziosi commenti.Dice Sergio Sciacca: “Giovanni Formisano è tra i pochi che, a conclusione della propria carriera poetica, nel 1955, mise assieme un denso libretto delle proprie cose cercando per esso una continuità di ispirazione, una tonalità predominante che ne costituisse la chiave di interpretazione autentica.
Formisano ritrae la vita semplice, spontanea che non si pone dilemmi intellettuali, ma ama lo scorrere della stessa conformazione delle cose, il gesto ripetuto per secoli accompagnato dalla profonda consapevolezza degli affetti.
Idilli privi di svolazzi letterari, quadretti di vita quotidiana colti dal vero, attenzione per la dignità dei protagonisti: ecco la tonalità della silloge.
Accanto alla tonalità dominante ce n’è un’altra che si lascia cogliere in tutti i componimenti: l’amore per la propria lingua; la lingua della quotidianità
che rifugge dagli idiotismi e dagli arcaismi, ma che è sempre pronta ad accogliere neologismi.
Ecco la poesia che Formisano ha scelto per il suo lettore: uomini e cose legati dal cuore, la vita e il suo ricordo annodati dal verso.
La satira pungente, gli affetti chiassosi, l’artificio di solenni coturni e di pose studiate, rimangono fuori da questo libro, che rifugge dalle partizioni scolastiche e dalle esibizioni artistiche e solo mira al dialogo dell’anima, al sensibile ascolto del cuore.”
Dal canto suo, Francesca Romana Puglisi asserisce: “Nel 1955 nacque Campani di la Virmaria, compendio di liriche scelte dallo stesso autore.
Giovanni Formisano cantò il mondo affettivo dei siciliani: la famiglia, gli amici, la terra natia, con accenti venati da pessimismo che sfocia nella malinconia; ma il superamento del dolore trova note limpide nel canto della speranza, trova accenti teneri nella musicalità dei versi. I suoi pensieri tradotti in poesia creano immagini nitide e schiette. Pura essenza di vita cantata attraverso le corde più vibranti del cuore, la sua Poesia esclude circonlocuzioni, inutili perifrasi, contorsionismi linguistici, rivela il suo stile di vita, la sua umanità, il suo sapere ascoltare la vita.
Il volume Campani di la Virmaria FOTO 9 riproduce in copertina una bella foto di Giovanni Formisano e si apre col rituale testo dedicato A li litturi:
Stu libriceddu è l’ultimu ca fazzu … mi fermu nna stu puntu e mi ni vaju …
sti quattru scaravagghi ca vi lassu / su’ tutti scritti a comu vosi Diu …
tuttu sonnu pirdutu, tanti notti / ccu l’occhi stanchi e senza vuluntà,
al quale segue una stringatissima introduzione.
Questa, sostanzialmente, ripete uno strabiliante episodio, degno di essere conosciuto.
Nel 1922 Il Messaggero di Roma bandì un concorso nazionale per dieci poesie in dialetto siciliano atte ad essere musicate. Ne arrivarono, da tutta Italia, cinquecento. Giovanni Formisano inviò dieci canzoni e riuscì vincitore SETTE volte. In quella occasione Luigi Pirandello, che presiedeva il concorso, ebbe a certificare: “Sette volte dunque emerge un nome: Giovanni Formisano; quando, messe da parte le buste col motto corrispondente alle canzoni prescelte, le abbiamo aperte, siamo rimasti meravigliati da quel ritorno dello stesso nome sette volte; meravigliati e lietissimi, poiché avevamo così la prova che il nostro concorso scopriva un poeta, appassionato, malinconico, amaro, un vero e schietto e personalissimo poeta che, essendo catanese, compensava la sua città natale della recente perdita fatta nella persona di Nino Martoglio”.
A chiudere questo segmento la riproposizione di quelle sette fortunate canzoni, che sono state tutte musicate da Gaetano Emanuel Calì:
1. Canusciu na ‘gnunidda,
2. Com’è c’a’ fattu tu,
3. Siti cuntenti ora?,
4. Non ni videmu cchiù,
5. E spezzu la chitarra,
6. Varcuzza abbannunata,
7. Scumunicata.
Seguono altre otto sezioni: le prime sette, con estratti dalle rispettive originarie pubblicazioni:
Mennula amara con dieci testi,
Carizzi di tula con sedici testi,
Jurnati senza suli con venti testi,
Canti di terra bruciata con diciassette testi (più due di altri autori),
Canzuni senza patri e senza matri con quindici testi,
Setti lacrimi con tre testi,
Vecchi cicatrici con diciotto testi;
e l’ottava, Quattru vampugghi, con testi rispetto agli altri più recenti, nisciuti di lu chianozzu pocu tempu arreri, per un totale di ventidue (più due componimenti di altri autori).
Il tutto per complessivi centoventuno testi (ai quali vanno aggiunti gli otto della introduzione).
Il metro dell’intera silloge è quanto di più classico vi possa essere: si va dalla quartina all’ottava toscana, dalla sestina all’ottava siciliana, passando per il canonico sonetto.
L’endecasillabo di conseguenza, che di queste forme è il verso per antonomasia, la fa da padrone; ma parimenti vi spicca il settenario che, specie nei testi di più lungo respiro, con l’endecasillabo felicemente si accorda.
Ciò detto, constatiamo che, fra le duecentocinquanta e più facciate, il libro consegna alcune foto nelle quali, oltre al Nostro con bastone e caratteristico papillon,sono fra gli altri riconoscibili: Peppino Denaro, Luigi Pirandello, Turi Ferro, Pietro Guido Cesareo, Turi Scordo, Carmelo Molino e Peppino Caleca.
La notazione che immediatamente risalta è che non ci sono traduzioni in italiano, né glossario, né altro. Il dato,a nostro parere, va inteso nel senso della solidità, dell’espressività, della validità del dialetto siciliano, della dovizia, della poliedricità, della bellezza del suo lessico, che, nella valutazione dell’autore, non ammettono alcuna sorta di adattamento, alcuna traduzione.
Lessico che, sorretto da lemmi di derivazione greca, latina, araba, eccetera, è mirabilmente versato per la poesia. Lessico che molti di noi tuttora adoperano con naturalezza, con proprietà di significato e che compiutamente si attaglia all’esigenza sociale della comunicazione amicale e familiare.
Orbene, quantunque pregni di vitalità, di attualità, quei lemmi sono antichi di secoli, quando addirittura non di millenni; ma di ciò non abbiamo coscienza perché, presumibilmente, mai ci siamo interrogati in tal senso.
Il siciliano infatti, le cui radici (diciamo così ufficiali) affondano nel lontano 424 a.C. con la virtuale costituzione ad opera di Ermocrate della nazione siciliana, “Noi non siamo né Joni né Dori, ma Siculi”, è un organismo vivo, palpitante, un organismo capace di resistere alle influenze delle disparate
altre culture con le quali si è “incontrato”, capace di acquisire da ognuna di esse quanto di volta in volta più utile al suo arricchimento e di stratificare tali conquiste sulle proprie, primigenie fondamenta.
E così in età successive si avvicendano il greco-siculo, il latino-siculo, l’arabo-siculo, il franco-siculo, l’ispano-siculo, ma in definitiva sempre una lingua, una sola: il siciliano.
Tra le considerazioni su questo lavoro di Giovanni Formisano è, pertanto, imperativa quella afferente alla scelta lessicale; scelta che, nell’estrarre
dall’incommensurabile patrimonio del nostro dialetto voci, espressioni, soluzioni distintive, concorre ad esaltarne la pregevolezza.
Tra la miriade offertane, ne enunciamo taluni emblematici esempi: asciari / trovare, rastu / impronta, accuffulatu / accovacciato, arrappata / avvizzita, ammàttiri / capitare, pinnulara / palpebre, nicheja / dispetto, truscia / fagotto, caramma / fenditura, ciaramiti / tegole, trìspiti / cavalletti in ferro o in legno su cui poggiavano le tavole del letto, nsalanutu / intontito, muccaturi / fazzoletto, cannarozzu / gola.
Talune espressioni idiomatiche: parrava latinu, parlava con franchezza, ciaramuni li mussi tutti dui, mettiamoci d’accordo segretamente,
s’arricogghi li pupi, muore, contribuiscono inoltre ad impinguarne il timbro, ad imprimere agilità dialettica, a dispensare aromi autenticamente siciliani.
Al contempo, a statuire quasi un contrappasso, si riscontra un ingente influsso dell’italiano, “influsso che ha un grande ruolo nella dinamica linguistica inerente ai testi poetici”.
Nell’ordito compositivo di Formisano reperiamo: finimenti, bizzarru, suffucari, rumuri, spusatu, oggetti, angustiati, purticatu, fatali, spizzari, bugia, adattari, oduri, venerdì, spavintari, gula, abbusu, purificata.
Fra le occorrenze di ricorso a forme mutuate dall’italiano emerge altresì, copiosa, quella di rendere il futuro dei verbi. Formisano dall’italiano adotta:
murirò, saremu, saprà, truvirannu, durirà, ristirà, che sono forme del futuro estranee al dialetto siciliano, benché ugualmente egli utilizzi le corrette forme in siciliano: dumani torna, dumani agghiorna, dumani vegnu.
Per vincolo di metro e/o di rima, Formisano ricorre poi, reiteratamente, a vezzeggiativi e diminutivi, che costellano tutta la crestomazia: arvuliddi / stiddi, patrozzu / cozzu, muddichedda / castagnedda, cannistreddu / passareddu, nicareddi / puddireddi, sunnuzzu / sigghiuzzu.
Fra le peculiarità del dialetto siciliano, che segna spiccatamente la scrittura di Formisano e ne scopre l’origine, la tipicità catanese, è la forma “Iù” del pronome personale alla prima persona singolare. Iù, ìu, èu, iè, ièu, iò sono alcune tra le svariate tipologie, qua e là usate in Sicilia, per esprimere il pronome personale “io” e ognuna di esse gli esperti hanno attribuito a un determinato distretto geografico.
E così, per dirla con Giorgio Piccitto, Giovanni Tropea, Salvatore C. Trovato e il loro monumentale Vocabolario Siciliano, la voce iò appartiene preminentemente al circondario “TP 20”, ovvero, accertiamo nel reticolato della cartina inclusa in quei tomi, alla punta occidentale della Sicilia, alla provincia di Trapani.
La voce jò è diffusa nell’area della Sicilia nord-ovest, area rappresentata dai comuni di Buseto Palizzolo, Custonaci, Erice, Favignana, Paceco, San Vito Lo Capo, Trapani e Valderice.
Per contro – si veda ancora detto Vocabolario Siciliano –, la voce iù è localizzata nelle circoscrizioni “CT I” e “CT II”, ovvero Catania città e l’area etnea.
Parimenti tipici del versante ionico dell’Isola sono le desinenze in unu dei verbi alla terza persona plurale; ne scorriamo una variegata passerella:diciunu, passunu, dormunu, chiamunu, guardunu, parunu, scordunu, ridunu, tremunu, cogghiunu, nasciunu, soffrunu, morunu, lassunu.
In dirittura d’arrivo una masculiata di ulteriori notazioni: il punto esclamativo a chiusa (quasi) di ogni periodo/poesia; la citazione della frevi spagnola,
che a lungo restò impressa nella memoria di quelle generazioni; la preposizione “di”, nisciuti di lu chianozzu scrive Formisano.
Il siciliano infatti, considera Lionardo Vigo in Canti Popolari Siciliani del 1857, manca del segnacaso da: “vengo da Palermo, noi dicamo: vegnu di Palermu, il segno del genitivo, di, vale per l’ablativo”; il verbo essiri che, come del resto è avvenuto in altre lingue, ha perduto, in favore del verbo aviri, le funzioni di verbo ausiliare, per cui diciamo aju statu, aviti statu, eccetera; l’articolo indeterminativo “un”, il cui uso, è corretto nel dialetto siciliano davanti ad esse impura e zeta: vi cascau un spinguluni, cumanni un statu, un zeru tagghiatu; il complemento oggetto che, laddove si tratta di oggetto animato, viene preceduto dalla preposizione a: vidu a na donna, vedo una donna, pregu a lu Signuri, prego il Signore, mentre nel caso di oggetto inanimato la preposizione non va usata: vìu la luci, vedo la luce; la liricità e alcuni esiti di eccellenza:
Mintemu ca tu fussi na funtana / e iù mortu di siti senza lena …
Mintemu ca tu fussi un cucciddatu / e iù mortu di fami, senza aiutu …
Mintemu ca tu fussi ‘n scogghiu a mari / e l’unni si facissiru cchiù feri;
guardaru tanti ma nuddu capiu / la nostra storia dulurusa e muta! ...
nuddu lu sappi ca un amuri mortu, / risuscitau e morsi nautra vota. /
Tu sichitasti pri lu to caminu, / iù sichitai la strata opposta a tia;
Ogn’annu veni, ogn’annu fai ‘ncantari, / veni vistuta di tanti culuri, /
l’aceddi a coru venunu a cantari, / squagghia lu jelu e sboccianu li ciuri.
In procinto dell’epilogo il toccante capitolo che attiene a Chiddu, la cui vicenda, che ha esercitato in noi una genuina commozione, a iniziare dal testo, fugacemente ricostruiamo.
Il testo, che superbamente ha saputo ricreare l’atmosfera che lo ha generato, non abbisogna di postille.
Premesso che compare nella silloge Canti di terra bruciata del 1927 e che quindi è verosimile che la sua composizione sia anteriore, l’aspetto sorprendente è che esso ha avuto, oltre alla suggestiva genesi, uno struggente proseguimento.
Trascorrono un bel po’ di anni. Quel picciriddu, ritrovatosi come tanti nostri conterranei in quel periodo a dovere emigrare negli Stati Uniti, viene a conoscenza della duci puisia della quale è il soggetto.
Turbatone, prende carta e penna e, in omaggio a quel pueta granni, confeziona un testo nel quale egli si riconosce come quel picciriddu, annuncia di essere ormai lontano da quella stratuzza per la quale il poeta passava ogni matina a la stissa ura, comunica che nel frattempo la matri è morta,
confessa che egli, Mario Di Filippi, non ha mai smesso di ricordare e di onorare quel divinu vati sicilianu.
Il testo di Mario Di Filippi, stampato sul n°17 del periodico La Torre, di Canicattì AG, del 10 novembre 1974, perviene, per le vie misteriose della poesia, nelle mani di Giovanni Formisano jr., nipote di Giovanni Formisano.
Questi, pur nella trepidazione che lo ha investito, “na lacrima mi scinni amara e duci” sente, “a nomu d’Iddu … oramai sutta la cruci”, di dovere ringraziare e risponde con un suo partecipe testo, “mi trema la manu mentri ti scrivu”, che verrà ospitato sul proprio libro Ala di luci del 1979.
Entrambi i componimenti, quello di Di Filippi e quello di Formisano jr, ambedue come l’opera prima titolati Chiddu, hanno trovato, per ineccepibile affinità, collocazione in chiusura della sezione Canti di terra bruciata.
CONCLUSIONE
L’ultimo testo della raccolta, dedicato a li pueti di Sicilia nichi e granni, si intitola Cungedu:
Stu poviru pueta, frati Vanni, / s’arricogghi li pupi e si ni va! /
Malatu, stancu, carricatu d‘anni …Prima ca partu, amici mei pueta, / iù vi dumannu scusa …
siddu, senza vuliri, / cchiù di na vota aju statu pisanti /
cuntannu li me’ peni e li suspiri …
Ed ora mi ni vaju, vi salutu, / ogni tantu pinsati a stu pueta /
ca vivu campò sempri strabburutu / ccu la testa cunfusa e sempri ‘ncheta.
Il passaggio ogni tantu pinsati a stu pueta sembra diretto giusto a noi. Confidiamo, con l’odierno omaggio, di avervi adempiuto.''
Chiusa la relazione si è aperta una discussione nel corso della quale si è dibattuto soprattutto dell'uso del siciliano nella lingua parlata di tutti i giorni in quanto patrimonio culturale da non perdere e dimenticare specialmente da parte dei più giovani che tendono a parlare nella lingua nazionale.
Al suo termine il Prof. Valenti dopo aver ringraziato il Dott. Scalabrino ed il Signor Noto per l'interessante tema trattato nel corso della serata ha fatto loro omaggio, a ricordo dell'evento, del libro '' Sicilia risorgimentale '' di S. Costanza ricordando ai presenti che il prossimo incontro in programma è stato dal calendario fissato per sabato 1° dicembre 2018 alle ore 18.00 nei locali dell'Associazione.