2019 - 03 - 09: Prof. Salvatore Bongiorno - SABIR: la lingua del Mediterraneo

Sabato 9 marzo 2019 alle ore 18.20 nella sala delle conferenze dell'Associazione per la Tutela delle Tradizioni Popolari del Trapanese sita in Trapani via Vespri 32 si è svolto il settimanale incontro previsto dal calendario delle attività del XXXIII Corso di cultura per l'anno 2019.

Ospite della serata il Prof. Salvatore Bongiorno. Docente in quiescenza di Storia e Filosofia, autore di numerose pubblicazioni ed assiduo partecipante alle attività culturali del sodalizio l'oratore è stato cordialmente accolto dai presenti e dal Presidemnte che dopo aver aperto i lavori della serata, avergli rivolto un saluto di benvenuto ed averlo brevemente presentato, gli ha ceduto la parola.

Il Prof. Bongiorno dopo aver ringraziato il Presidente e l'Associazione per averlo ancora una volta invitato a relazionare è entrato subito in argomento.

Si riporta di seguito ed integralmente quanto dallo stesso riferito in quanto gentilmente reso disponibile per essere riportato in queste note.

'' IL Sabir, la lingua del Mediterraneo di Salvatore Bongiorno

Il Mediterraneo, " la nostra madre ", come lo ha definito Dominique Fernandez, grazie alla sua privilegiata posizione geografica che si estende da est a ovest, dai Dardanelli a Gibilterra, per millenni è stato solcato da marinai, mercanti, pellegrini avventurieri, flotte che sventolavano la croce di San Giorgio o la mezzaluna in campo verde.

Il " grande lago " ha visto fiorire e tramontare civiltà, è stato mezzo di diffusione di valori e religioni, veicolo di conoscenza tra i popoli rivieraschi, spazio vitale fra l'Europa Occidentale e il mondo arabo e africano e anche centro di un intenso traffico piratesco, legato alla cattura e al commercio degli schiavi.
Per più di mille anni il Mediterraneo è stato un mare aperto, un crocevia di culture, storie, popoli, soldati e mercanti, di battaglie, di guerre anche, ma, sempre e comunque, un luogo d'incontro tra popoli diversi. 
Oggi il mondo è cambiato, impossibile apparentemente accomunarlo a quegli anni e purtroppo la storia è assai più complicata di quanto possa sembrare.
Eppure ogni qualvolta che poveri cristi di un mondo di fame e di miseria muoiono senza più sogni o piangono solidarietà tra porti sconosciuti e inospitali del Mare Nostrum, un mare diventato montagna, cortina di ferro tra un mondo in pace e l'altro in guerra, tra terre di benessere e deserti di miseria, penso a quando il Mediterraneo parlava un linguaggio comune, il Sabir o Lingua franca, la lingua dei suoi porti e della sua gente. 
Una lingua di servizio, una commistione, un ponte fra le diverse lingue parlate in tutti i porti del Mediterraneo tra il XIV e tutto il XIX secolo, una lingua appartenente a tutti e allo stesso tempo a nessuno. 
Sabir forse deriva da una storpiatura del catalano saber, cioè " sapere ", mentre lingua franca, dall'arabo lisan-al-farangi, vuole significare il mettere in contatto parlanti di estrazione diversa, oppure lingua dei franchi, nome con cui le popolazioni nordafricane definivano tutti i popoli europei.
Era chiamata anche Petit Mauresque ( in francese piccolo moresco ). 
Il Sabir non era una vero e proprio linguaggio con precise regole grammaticali, ma un modo di dialogare frutto di una serie di combinazioni di suoni e gesti, era semplice, limitato e rozzo, ma tutti capivano, non solo la gente di mare, ma anche i contadini che vivevano nelle zone vicine.

A cominciare da Trapani il cui porto era un palcoscenico sempre cangiante di venti, di legni, vele, bandiere, uomini bianchi, rossi, neri, affaccendati a
manovrare galere, galeotte corsare, sciabecchi francesi, galeoni spagnoli, vascelli pirata inglesi, olandesi, catalani, genovesi, polacche veneziane.
Sotto la cupola di maiolica verde della Chiesa di San Francesco, vicino al forte dove ogni mese attraccava la lugubre galera della Santa Inquisizione per portare le offerte dei cristiani e dei turchi al santuario della Madonna di Trapani e dove vi erano i cantieri navali che ospitavano barche di amici e nemici, si parlava e si comprendeva il Sabir.
Questa lingua franco-barbaresca non era un mero repertorio di espressioni già elaborate da utilizzare nelle transazioni commerciale o nei rapporti diplomatici e neppure un modo di esprimersi della sola ciurma, dato che il lessico non sembrava dare particolare rilievo alla terminologia marinaresca fatta solo di ordini, imprecazioni minacce.
Sebbene avesse diverse varianti, quella più usata diffusa e persistente era costituita principalmente da un lessico costituito al 65-70% di espressioni italiane con forti influenze venete e liguri, il 10% derivava dallo spagnolo e il resto da parole di altre lingue mediterranee, come l' arabo, il catalano, il greco, l'occitano, il francese, il portoghese, il siciliano e il turco.
La morfologia era molto semplice e l'ordine delle parole molto libero, il lessico e la grammatica si componevano di verbi all'infinito, pochi vocaboli ma ben precisi e un periodare fatto solo di coordinate.
Vi era un largo uso delle preposizione per supplire alla mancanza di alcune classi di parole, gli aggettivi non sempre distinguevano il genere maschile da quello femminile e frequente era la mancanza di distinzione fra singolare e plurale, per cui l'amigo significa tanto l'amico, quanto gli amici.
Inoltre, aveva un numero limitato di tempi verbali, dato che il presente, l'imperfetto si declinavano in un'unica forma infinitiva valida per tutte le persone, mentre per il passato si usava il participio passato e per il futuro si ricorreva al modale bisognio o a forme perifrastiche come mi estar.
Per indicare i superlativi si ripeteva l'aggettivo più volte e nelle frasi interrogative, l'ordine delle parole restava lo stesso, cambiava il solo tono di voce.

Ovviamente la lingua Sabir presentava variazioni regionali che si contaminavano in varia misura, seguendo un proprio processo naturale legato alle varie fasi storiche, soprattutto nei centri in cui si praticava maggiormente la pirateria, come ad Algeri, in quel tempo la città più cosmopolita di tutto il Mediterraneo.
La pirateria nel Mediterraneo, infatti, contribuiva, notevolmente a concentrare in Nord-Africa una gran moltitudine di europei, in maggior parte schiavi e rinnegati, i quali avevano necessità di comunicare quotidianamente con i musulmani arabi, berberi o turchi per sopravvivere.
E non a caso a Livorno, a Tangeri, Salonicco, a Istanbul, a Trapani, a Valencia, a Malta, a Genova, città in cui oltre al commercio di derrate alimentari era ben presente la pirateria e le necessarie relazioni tra gli schiavi e i loro padroni, tutti potevano, musulmani e cristiani, capire e recitare il Padre Nostro in lingua Sabir:

" Padri di noi, ki star in syelo,
noi 
voliri ki nomi di ti star saluti.
Noi volir ki il paisi di ti star kon noi,
i ki ti 
lasar ki tuto il populo fazer volo
di ti na tera, syemi syemi ki nel syelo.
Dar 
noi sempri pani di noi di cadaj orno,
i skuzar per noi li kulpa di noi,
syemi 
syemi ki noi skuzar svesto populo
ki fazer kulpa a noi.
Non lasar noi tenir 
katibo pensyeri,
ma tradir per noi di malu.
Amen ". 

Che si chiamasse Dio o Allah poco importava per chi, come era nella tradizione rivierasca, implorava con questa preghiera aiuto e protezione.
Essendo una lingua nata per essere parlata, sono rarissime le testimonianze scritte.
Il primo documento in lingua franca risale al 1296 e si tratta del più antico portolano relativo alla totalità del Mediterraneo, intitolato Compasso da 
Navegare.
Redatto grazie all'assemblaggio di decine di altri portolani parziali anche di epoche antecedenti era un vero e proprio manuale di istruzione, un vademecum che descriveva nei minimi particolari le coste, gli scogli pericolosi, le rotte da seguire e, naturalmente, le baie ed i porti dove ripararsi o fare rifornimento di acqua e di viveri.

Del 1830 è il Dictionnaire, un manuale scritto in lingua francese in occasione della spedizione transalpina per la colonizzazione di Algeri, che doveva servire ai soldati francesi a imparare e conoscere la lingua sabir per poter comprendere meglio il popolo algerino.
Anche il veneziano Carlo Goldoni nel rappresentare L'Impresario delle Smirne, fa utilizzare ad un personaggio, Ali, qualche espressione Sabir, come, per esempio il verbo " stare " in luogo del verbo " essere ". 
E un altro grande del teatro, Molière, nel Borghese gentiluomo rappresenta una cerimonia turca in lingua Sabir, dove immagina che il mufti rivolgendosi al protagonista dice « Se ti sabir, ti respondir. Se non sabir, tazir, tazir ( Se tu sai, rispondi. Se non sai, rimani in silenzio )".

E ne Il siciliano o l'amor pittore, in cui rappresenta uno schiavo turco che incontra Don Pedre gli propone di comprarlo dicendo: 

" Chiribirida ouch alla Star bon Turca, Non aver danara: Ti voler comprara?  Mi servir a ti, Se pagar per mi; Far bona cucina, Mi levar matina, Far boiler caldara; Parlara, Parlara, Ti voler comprara?"
Don Pedre risponde:

" Chiribirida ouch alla, Mi ti non comprara, Ma ti bastonara, Si ti non andara; Andara, andara, O ti bastonara."

Charles Farine riporta l'incontro, avvenuto intorno alla seconda metà del 1800 tra il generale francese Pierre Hyppolite Publius Renault e un rappresentante delle milizie algerine impiegate dai francesi.
Le truppe algerine preferendo intraprendere azioni militari anziché scavare le trincee ripetevano che " Trabaj ar barout bono, trabaj ar terra makcach",. " Lavorare il barout [ la polvere da sparo] è buono, lavorare la terra è male".
Barout deriva dal francese " poudre " e makach è una forma per dire " niente ", cioè " no ".
Ancora oggi, nella terminologia marinaresca di tutto il Mediterraneo sono presenti parole appartenenti a questa lingua, come per esempio vira e 
'maina e se vi trovate al mercato del pesce di Mazara del Vallo potrete ascoltare le urla dei pescatori durante le battute d'asta, che utilizzano termini non siciliani.

Cosi come dall'altra parte del Mediterraneo il termine siciliano patruni ( padrone ) è capito e ancora utilizzato tra la gente di mare algerina e tunisina.
Insomma una lingua ausiliaria, di necessità che serviva a mettere in contatto gli europei con gli arabi e i turchi, una lingua parlata anche dagli schiavi ( nel cosiddetto bagnio ), di Malta, dai corsari del Maghreb, dai fuggitivi europei che trovavano riparo nelle coste della Barberia. 
Un idioma indispensabile per chiunque volesse lavorare sul mare o con il mare, di certo ben consolidato nel tempo, come conferma la testimonianza
di Diego de Haedo, un frate dell'Ordine dei Trinitari, la congregazione religiosa che si occupava del riscatto degli schiavi, che nel 1612 scrive che " non c'è casa ad Algeri dove non sia parlata ".
E' affascinante pensare che fino agli albori del Novecento commercianti, armatori, pescatori, pirati e marinai in partenza o in arrivo a Genova, Valencia, Algeri, Napoli, Tangeri, Marsiglia, Palermo, Salonicco o Istanbul parlassero e si esprimessero attraverso questo filtro di comune linguaggio, quasi annullando d'un tratto le differenze culturali e le distanze chilometriche tra le due sponde marine, pronunciando frasi del tipo seguente:" Mi star contento mirar per ti " " sono contento di vederti ". oppure " Cosa ti ablar? " " cosa dici ", " Mi tener piacer conoscir per ellu " " ho piacere di conoscerlo ".

Al contrario dell'inglese, la lingua dei potenti, della finanza e della globalizzazione non era una lingua calata dall'alto, era una sorta di esperanto empiricamente costruito a poco a poco, prendendo in prestito termini provenienti da tutti i vocabolari del Mediterraneo.
La lingua franca barbaresca nasceva dal popolo del mare e il suo persistere per almeno tre secoli, l'estensione del suo utilizzo in tutti i casi della vita quotidiana ne fanno la più antica e più longeva lingua pidgin di cui si abbia notizia.
Poi, con la conquista francese dell'Algeria del 1830, il lento e successivo declino della rotta mercantile nell'area a favore di quella atlantica, la disgregazione delle formazioni imperiali e statuali multietniche a favore dei rispettivi nazionalismi e la politica di assimilazione coloniale ne hanno segnato la fine.
Di fatto, era mutato il vento della storia ed erano venute meno le condizioni politiche che avevano decretato il successo di questa lingua franca-barbaresca, la lingua parlata nei porti che permetteva ai cristiani di diverse lingue romanze di capirsi fra loro e di comprendere arabi e turchi.
In verità il Sabir continuò a esistere per almeno un'altra cinquantina d'anni per pura forza d'inerzia, ma andò sempre più francesizzandosi sino a modificare profondamente il suo lessico, tanto che oggi il francese del Maghreb può essere considerato una specie di continuazione.
Questa sorta di meticciato linguistico orale unico e per questo patrimonio inestimabile nella complessa rete di rapporti, di intrecci che hanno costituito la storia del Mare di Mezzo, proprio quando poteva servire, si è eclissata e si è persa traccia di tante storie, racconti che da sempre accompagnavano le notti al chiaro di luna di chi va per mare.
La lingua che parlava di navi che solcavano le onde per scoprire, innovare, commerciare, anche guerreggiare, la lingua che dipingeva nuovi orizzonti e antiche città e culture, quasi annullando d'un tratto le differenze culturali e le distanze impossibili, adesso è scomparsa.
il Sabir forse ora è solo una civiltà che talvolta affiora sotto il pelo dell'acqua, non narra più di come scimitarre musulmane e spade cristiane, avessero più di un motivo per essere deposte.
E Dio solo sa quanto oggi una lingua comune sarebbe utile per capirsi da una sponda all'altra di un mare, diventato ostile per cause legate alla fame, alle guerre che a loro volta creano masse di rifugiati e migliaia di migranti che affogano o si perdono cercando una vita migliore.
Molto è avvenuto sul piano storico e non sempre ne abbiamo memoria.
Purtroppo, oggi cosi presi dalla sindrome dell'apparenza, stentiamo a capire che il mondo dimentica in fretta, fatica ad imparare dai propri errori e per converso ci fa sentire falsamente onnipotenti. 
In un colpevole e interessato silenzio, o ormai presi dalla notizia del giorno che cancella quella del giorno prima, grandi e assurde tragedie di popoli macchiano la nostra incombente modernità e noi spesso umanamente rimaniamo ciechi e sordi.
Forse non ne abbiamo sempre giusta consapevolezza, viviamo in un contesto contraddistinto dal regime della temporalità, di un eterno presente come fatto ineluttabile, come un destino inemendabile. 
I ricordi, il senso storico, la coscienza memoriale sembrano essersi eclissati, non c'è più relazione temporale, ciò che accade oggi appare sempre diverso e non siamo in grado di porlo in relazione con gli eventi passati.
Tutto è rimosso incredibilmente, velocemente, senza accorgercene.
E, invece, guardare la nostra storia è un gesto fondamentale per capire il nostro presente perché la modernizzazione convulsa e irrefrenabile ha trasformato il volto delle nostre società, ma ha limitato nella sua folle corsa consumistica il tempo della riflessione.
Accade troppo spesso che l'uomo padrone della tecnica e del sapere non si interroghi più sulla propria vulnerabilità, sul proprio essere, sul senso della propria esistenza e di quella degli altri.
La persona non è solo essere in sé, una monade senza porte e finestre, ma soprattutto un essere in relazione, un essere verso, con e per l'altro, è nella stessa nostra struttura ontologica la dimensione fondamentale della reciprocità.
L'uomo è essenzialmente trama di rapporti e quando la relazione è asimmetrica l'altro diventa l'alieno, il nemico, e l'io diventa estraneo a se stesso, tragicamente deformato dalla fobia della mescolanza, e dalla paura del meticciato.
In una fase storica di migrazione non solo di popoli, ma di idee e modelli culturali diversi. è imprescindibile uscire dai confini della propria cultura per entrare nei territori mentali di altre culture.
Oggi, le difficoltà economiche, il non sempre lineare percorso di unificazione europea rendono le persone più disarmate rispetto alla becera propaganda di chi, nel diverso colore della pelle, vede sempre un nemico su cui scaricare le ansie e le difficoltà di una convulsa modernità.
Perché un nemico bisogna pur trovare, un nemico che cammina, che mangia, che vive, che crede in altro Dio, in altri costumi, che parla linguaggi diversi, un nemico reale non ideale, un nemico che impersona le nostre contraddizioni.
Ma chi gioca a innalzare muri ha dimenticato che i muri da sempre hanno partorito solitudini, separazioni, frustrazione e violenza. 
Come ha scritto Emanuel Levinas " per sopravvivere responsabilmente dobbiamo andare oltre i confini della nostra soggettività egoistica e auto centrica ".
E forse sarebbe il caso di ripensare che una volta, non molto tempo fa, c'era una lingua detta Sabir, una lingua che faceva incontrare uomini diversi, una lingua che accomunava popoli e civiltà diverse, una lingua del mare, una lingua di pace, di reciprocità e di accoglienza. ''


Al termine della relazione è seguito un interessante dibattito cui hanno partecipato molti dei presenti in sala che hanno apportato alla discussione anche contributi personali che hanno animato lo stesso e che hanno ampliato ulteriormente la tematica presentata.

Al termine dello stesso il Prof. Valenti dopo aver ringraziato l'oratore per l'inedito ed interessante tema trattato a ricordo della serata gli ha donato il libro di S. Costanza '' La libertà e la roba - L'età del Risorgimento '' ed ha chiuso l'incontro con i saluti di arrivederci a sabato 16 marzo 2019 alle ore 18.00 nei locali dell'Associazione per il prossimo evento previsto dal calendario delle attività del XXXIII Corso di cultura.

Switch to Day Switch to Night