2012 - 05 - 05 : Dott. Ninni Ravazza - Il mito della mattanza

Sabato 5 maggio 2012 alle ore 18.20 nella sala delle riunioni '' Antonio Buscaino '' dell'Associazione per la Tutela delle Tradizioni Popolari del Trapanese sita in Trapani via Vespri 32 con la partecipazione di un numeroso gruppo di soci e di simpatizzanti si è tenuto il consueto incontro settimanale nell'ambito del Corso di Cultura per l'anno sociale 2012.
Ospite della serata il Dott. Ninni Ravazza che è stato accolto dal Presidente, Prof. Salvatore Valenti, che dopo averlo presentato gli ha ceduto la parola.

Il Dott. Ravazza, laureato in Scienze Politiche, Indirizzo sociale, all'Università di Palermo ha al suo attivo numerose attività: giornalista dal 1979, sommozzatore, fotografo subacqueo, Presidente dell'Associazione Pro Loco di S. Vito lo Capo. E' autore di numerosi saggi e pubblicazioni, ha partecipato a numerosi convegni e conferenze aventi come tema il mare e le tonnare, ha effettuato numerose immersioni anche a grande profondità e dal 1984 ha collaborato con i rais delle tonnare di Bonagia e Favignana nella sorveglianza delle reti nelle recenti ed ultime stagioni della pesca del tonno.








L'ospite ha inizialmente ringraziato il Presidente per l'invito rivoltigli, i presenti che sono intervenuti all'incontro e quindi è entrato nella trattazzione del tema della serata.

Nel corso della sua esposizione si è avvalso della collaborazione della Dott.ssa Croce Vincenza che lo ha coadiuvato nella proiezione di numerose diapositive a supporto di quanto riferito.

Di seguito si riportano integralmente sia il testo della relazione che le diapositive proiettate nel suo corso.  Esse sono state gentilmente e cortesemente concesse dal relatore.  

'' IL MITO DELLA TONNARA

Trapani è una “terra di mare”, nel senso che tutto, o quasi, nella città parla di e del mare: la conformazione urbana, il territorio lambito per tre quarti dall’acqua, le sue tradizioni, l’artigianato, l’economia e la storia, financo la religiosità e le leggende.

Anche l’arte non poteva restare immune da questa contaminazione socio-culturale, e così diverse opere sono ispirate al mare e alle sue refluenze sulla vita della città, offrendo una testimonianza delle attività alieutiche che nel corso dei secoli hanno forgiato le classi sociali e l’economia di Trapani.

Le storie oggi al centro del nostro interesse sono quelle della mattanza e della tonnara, che ritroviamo anche in due pavimenti conservati al Museo Pepoli di Trapani, molto differenti fra loro. Uno ritrae la fase finale della pesca, l’uccisa, così era chiamata e non mattanza, termine importato dalla Spagna a fine ‘700, tanto che il marchese di Villabianca nei suoi diari quando parla della pesca
del tonno non usa mai il termine spagnolo, ma il siciliano “uccisa”; l’altro rappresenta la pianta della
tonnara siciliana, ed è praticamente identico alla coeva conosciutissima incisione del sacerdote Antonio Bova.
Quando gli artigiani (napoletani e siciliani) consegnano queste opere alle chiese ed ai nobili trapanesi la pesca del tonno è ancora l’attività alieutica più importante per il territorio, anche se il 18mo è un secolo non particolarmente favorevole: in provincia di Trapani vengono censiti 21 impianti, su un totale di 77 in tutta la Sicilia; alcuni sono già inattivi, “spenti”, quando Villabianca a fine ‘700 li enumera, ma la maggior parte è funzionante. Ogni tonnara occupava in media da 70 a 100 pescatori; per avere una lontana idea di quale fosse il rilievo sociale della pesca, ai tonnaroti si devono aggiungere bottai, mastri d’ascia, mastri calafati, salatori, operai, rigattieri, osti, preti, donne che intrecciavano le reti, tutta un’umanità che gravitava attorno alla tonnara e che da essa traeva il sostentamento economico. Migliaia di persone che senza la pesca del tonno avrebbero avuto grossi problemi a trovare un sostentamento economico. Tonnare, pure importanti sotto l’aspetto socio-economico, venivano calate anche lungo altre coste italiane: Sardegna, Calabria, Toscana, Puglia, Campania. Le tonnare sarde erano, dopo quelle siciliane, le più produttive.

Col passare degli anni, già dalla prima metà del XX secolo, la pesca del tonno con la tonnara tradizionale è andata incontro a un inarrestabile declino, che ha portato gli impianti a chiudere uno dopo l'altro.











Nel 1979 delle 21 tonnare trapanesi ne restavano in attività solo 5: Favignana e Formica, Bonagia, San Giuliano/Sancusumano e Scopello; l’unica tonnara di ritorno della provincia, quella di Torretta Granitola, era stata chiusa nel 1970. Nel 1980 Formica non venne calata, e subito dopo gli impianti di San Giuliano e Bonagia vennero unificati; il 1984 fu l’ultimo anno di attività di Scopello: poi nel    2003 si spense anche Bonagia, e nel 2008 la regina delle tonnare, Favignana, concluse ingloriosamente senza neppure un tonno la sua secolare e famosa attività.

Trapani, la terra delle tonnare, aveva perduto tutti i suoi impianti. Non è questa la sede per chiederci perché la pesca del tonno che qui aveva la sua culla si sia esaurita: impoverimento dei mari, nuovi metodi di pesca distruttivi e famelici, insipienza degli imprenditori, legislazione regionale ed europea dissennate. Di tutto un po’, certamente. Oggi i tonni si catturano con moderni pescherecci velocissimi che li inseguono per tutto il Mediterraneo, e vengono messi a ingrassare nelle gabbie in attesa che i mercati giapponesi li richiedano.

Quello su cui desidero richiamare l’attenzione, è piuttosto la gravissima perdita di un patrimonio che si è pian piano spento assieme alle ultime tonnare, agli ultimi rais, un mondo che aveva ereditato direttamente dai miti e dalla storia la propria cultura, perché diversamente da altri tipi di pesca, presto “corrotti” (se cosi possiamo dire) dalla tecnologia che ha messo a disposizione strumenti precisissimi per la navigazione e la ricerca del pesce, la tonnara è rimasta per millenni simile a se stessa, non toccata dalle innovazioni tecnologiche, identica nelle usanze, nei riti, negli usi e nei metodi. Un museo vivente l’ho definita più volte, dove sapienza ed empirismo, saperi e superstizioni, si sono stratificati attraverso centinaia e centinaia di generazioni di tonnaroti, portando fino a noi comportamenti e costumi che hanno origine nei miti e nei riti fondanti della civiltà mediterranea.

Il frequente riscontro con quanto possiamo leggere sui testi classici – a mio parere – è la migliore conferma di questa mia affermazione.











Io ho passato nelle tonnare trapanesi 20 anni della mia vita, in qualità di sommozzatore, e nelle lunghe
giornate passate accanto ai tonnaroti e ai rais ho ascoltato i loro racconti, raccolto le confidenze, le speranze ed i timori, li ho visti affrontare il mare e le forze della natura con gli stessi mezzi, o quasi, dei secoli passati: ho così assistito alla nascita del mito, e dei riti che l’uomo ha inventato per contrastare quelle forze che non poteva dominare. Ho vissuto l’epica di grandi uomini che, pur non sapendolo, riassumevano in sé millenni di storia e di cultura.

Nella tonnara, lungo il corso dei secoli, sono cambiati solo i materiali impiegati per la costruzione della struttura di pesca: alle fibre vegetali usate per la realizzazione di reti e cavi ( ampelodesmo, cocco, canapa, '' manilla '' ) a partire dagli anni '50 del XX secolo è subentrato il nylon; i sugheri legati insieme tenevano a galla le reti e ogni tre giorni si dovevano cambiare per farli asciugare











sono stati sostituiti prima dal lamierino zincato, e poi dalla plastica; tutto il resto, le barche, le ancore, gli attrezzi di bordo, le tecniche di cattura, la conformazione delle reti-trappola, è rimasto assolutamente identico, anche se il tragitto del barcareccio (“varcarizzo”) dal porto al luogo di pesca negli ultimi tempi avveniva al traino di motopescherecci a motore e non più dei “rimorchi” a sedici remi o sotto la spinta della vela latina.

La immutabilità della tonnara si riscontra su diversi livelli: quello epico laddove al rais – dominus assoluto chiamato a decidere della vita e della morte dei pesci (sceglie come e dove calare le reti,  quando fare mattanza) e anche degli uomini (assunzione/licenziamento sono sue prerogative) – si riconoscono poteri e capacità negate agli altri uomini-pescatori; quello magico-religioso con il ricorso a rituali che si perpetuano pressoché identici in tutti i tempi e sotto ogni latitudine; quello antropologico con usanze condivise da generazioni di tonnaroti separate dai secoli; quello prettamente tecnico, confermato da comportamenti e strumenti del tutto simili.

L’EPICA

I pescatori ne sono inconsapevoli, ma quando storpiando le parole affermano che “l’epica cangiau …” per significare che i tempi (epoca) sono cambiati, dicono in fondo una verità.

Come non riconoscere l’eroe omerico Achille che - solo tra cento - parla con la dea Atena invisibile agli altri, nel rais Mommo Solina di Bonagia che all’alba, seduto a poppa della “muciara”, prega in silenzio il suo Dio per una buona pesca e perché nessuno della “ciurma” subisca incidenti? Gli uomini col cappello in mano tacciono, non pregano nemmeno perché in quel momento hanno delegato il rais a far da tramite con le potenze numinose da cui dipendono le sorti loro e delle famiglie. In questo frangente la preghiera silenziosa è la ricerca del rapporto diretto col Dio, diversa dalla supplica rivolta ai Santi da altri rais, che ad alta voce invocano San Pietro, la Madonna, Sant’Antonio e San Francesco di Paola perché facciano da intermediari col Signore “per un’abbondante pesca”, simili a Giasone quando davanti ai compagni invoca Apollo perché “spiri dolce il vento, facendoci navigare nel sereno” (Argonautiche).

E’ certamente una figura epica, il rais; ogni sua parola, ogni gesto, riassume millenni di storia, di miti, di cultura. L’ottantenne Giuseppe Rallo che nella tonnara libica di Zanzur veniva preso in braccio dal capomuciara per scendere dalla barca, ha la stessa sacralità di Montezuma imperatore del Messico che non doveva toccar terra coi piedi, così come Luigi Grammatico a Trapani, Siracusa, Tripoli era conosciuto come “rais Giotto” per la precisione del tracciato a mare delle reti, quasi il proprietario delle tonnare fosse un Bonifacio VIII alla ricerca della perfezione.

Nell’estrazione a sorte degli equipaggi delle barche a inizio di stagione, narrato da Sarino Renda ultimo erede di una dinastia di rais a Bonagia (“I capibarca facìano u toccu e cu niscìa si sceglìa i soi …”), si rivive il sorteggio dei rematori sui banchi della nave Argo (“… poi, sistemati / a bordo tutti gli











attrezzi, sorteggerete banco per banco (/ i rematori..'': Argonautiche ) e quando lo stesso anziano rais racconta della gara fra le muciare spinte da sei remi legati con gli stroppa che i compagni di 
Ulisse chiamavano tropois (Odissea) e guidate dal pruere (proreus: Argonautiche) in piedi sulla prua per arrivare prima a terra sembra di sentire ancora le grida dei marinai di Enea che proprio sul mare della tonnara, attorno allo scoglio Asinelli, disputarono sulle navi Pristi Chimera Centauro e Scilla, guidate dal proreta, la prima regata della letteratura classica (Eneide).

Anche il varo dei vascelli carichi di rete nella tonnara di Scopello, attinto dai ricordi dell’anziano tonnaroto Giuseppe Urbano: “S’ammasava ‘a rizza Ch’i parascarmi ‘nterra e poi s’ammuttava a mare”, non è molto diverso da quello della nave Argo (“Scivolò dentro al mare: subito gli eroi / tirarono le gomene per fermare la sua corsa in avanti …”; Argonautiche).

E di fronte al mare in burrasca, quando i tonnaroti
si stringono nelle giacche lise scolorate dall’acqua e dal sole e osservano timorosi la “boria” che agita le onde, chi non sente l’odore acre del sale spinto da Borea, il vento del nord che investì Ulisse al largo della terra dei Feaci, che secondo lo studioso inglese Samuel Butler altro non sarebbe che la siciliana Trapani terra di ventuno tonnare? E quante volte, nel tragitto dal porto alla tonnara, i marinai hanno scrutato l’orizzonte alla ricerca dei martinazzi, gli uccelli marini segno di buon augurio, proprio come Enea, sfuggito alla tempesta marina, invitato da Venere si rincuorava alla vista dei dodici cigni “disposti festosi in schiera” (Eneide)…

LE TECNICHE

Concettualmente la tonnara è rimasta quella descritta da Oppiano nel II secolo: una rete perpendicolare alla costa intercetta il corso dei branchi di tonni e li indirizza al parallelepipedo di rete (isola) diviso in camere (vasi) separate da reti mobili (porte) che i tonnaroti abbassano per fare passare i pesci fino all’ultima camera, detta “della morte”, ove avviene la mattanza; i tonni vengono issati  a forza di braccia dai tonnaroti a bordo dei vascelli (imbarcazioni lunghe 18-22 metri) con i corchi (uncini dalle diverse lunghezze).

Il rais Salvatore Spataro, che ha diretto la pesca a Favignana e Bonagia, descrive con precisione le prime operazioni che si svolgono a mare per la preparazione dell’effimero palazzo di reti e corde: “Si chiama crociato perché i cavi e gli ormeggi […] 

 

 
si intersecano e formano tante croci sulla superficie”; i medesimi gesti, gli stessi termini, riportati nel XVIII secolo dal Villabianca (“questa operazione è chiamata il crociar le tonnare, poiché sono le reti formate a croce”).

Ancora oggi nel tempo della migrazione genetica dei tonni (maggio – giugno), quando sul mare si vedono galleggiare quegli idrozoi che i marinai chiamano vilidde, i tonnaroti sono certi che assieme ad esse arriveranno anche i pesci attesi, proprio come i loro avi confidavano oltre un secolo addietro: “quando in gran quantità coprono vasta superficie di mare, come tante piccolissime barchette, è per i tonnaiuoli indizio di pesca abbondante” (Francesco Angotzi, L’industria delle tonnare in Sardegna).

Non solo la tecnica, ma anche le barche della tonnara sono rimaste immutate per secoli, simili nelle denominazioni,  uguali nella struttura, nelle dimensioni, nei legni impiegati, tutte coperte di nera pece (melaina chiama le navi achee Omero nell’Odissea) finendo per costituire una flotta con caratteristiche uniche, assolutamente non sfruttabile per altri tipi di pesca. Il vascello (l’imbarcazione principale) della tonnara di Scopello nel 1771 era lungo 75 palmi (19 metri) e largo 18 (4,5 metri), praticamente simile a quello commissionato nel 1900 dalla Congregazione di Carità di Palermo per l’impianto di Bonagia (lunghezza 20 metri, larghezza 4,80), ed a quello in uso in questa stessa tonnara fino al 1998 (lunghezza 19,50 metri il vascello di ponente o “caporais”, 22,50 metri il vascello di levante o “di trasere”).

RELIGIONE E MAGIA

L’ambito nel quale emerge in maniera ancora più straordinaria la cristallizzazione dell’universo – tonnara è quello che attiene al sentimento religioso dei pescatori.

Essendo la tonnara una struttura fissa estremamente complessa, saldamente ancorata al fondale, il cui apprestamento a mare richiede lunghe operazioni e molto tempo,  i pescatori non possono agire radicalmente per ovviare ad una stagione sfortunata: così non è possibile salpare le reti e cambiare il sito se l’esito della pesca non è quello sperato, né si possono adescare i tonni con esche appetitose; ai tonnaroti non resta che affidarsi alla perizia del rais ed alla benevolenza dei Santi, oggi come ieri: “Preme l’osservanza della religione da cui giudica di dover dipendere non poco il buon esito della pesca” (Francesco Cetti, 1778).

Al sacerdote, “in cotta e stola color violaceo” è affidato il compito di benedire le reti prima del loro calo, quando sono ammasate (raccolte) sui vascelli, di pregare per la salute di quanti lavorano nella tonnara perché “securi et incolumes opus suum exerceant” e affinché le reti “tynnos capiant in abundantia” (Giuseppe Pitrè, La famiglia, la casa,la vita del popolo siciliano  1912); il rito è rimasto immutabile fino ai nostri giorni.

Viveva nella Sicilia occidentale del 1600 un “Venerabile Servo di Dio” famoso per i prodigi assicurati ai gestori di tonnara che si dimostrassero particolarmente munifici: al gabelloto degli impianti trapanesi di Favignana e Formica che aveva elargito una ricca elemosina al suo convento predisse che i tonni sarebbero arrivati numerosi e tanto grandi da avere le bertole (bisacce) al collo, e così “l’esito fece stupire […] poiché vide, che i Tonni all’entrar nelle reti portavan certe strisce bianche a modo di bertole” (Antonino Mongitore, Della Sicilia ricercata, 1743): i tonni catturati furono numerosi, e tutti portavano sui fianchi delle macchie chiare a forma di bisaccia. Quattrocento anni più tardi, intorno al 1960, nella tonnara di Bonagia, distante dieci miglia da Favignana, il tonnaroto Nicola Adragna si stupì quando al termine di una stagione mai più ripetuta – 1.130 tonni enormi – si accorse che i pesci catturati avevano “tutti delle stampe ccà”, sui fianchi, simili a bertole. Non sapeva, Nicola, che quelle macchie erano provocate dalla infiammazione di muscoli verticali posti ai lati delle ali a seguito dello sforzo. E non lo immaginava nemmeno Frà Innocenzo da Chiusa, il Venerabile Servo di Dio che nelle bertole al collo dei tonni aveva letto l’intercessione di Sant’Anna, al cui monastero erano andate le elemosine.
Le elargizioni ai monasteri per richiedere la benevolenza dei Santi sono state una prassi costante presso tutte le tonnare: “Ma in oggi i marinari […] promettono a religiosi mendicanti qualche porzion de’ tonni in limosina per riuscir loro felicemente la pescagione” scriveva nel XVIII secolo Villabianca, e l’etno-musicologo siciliano Alberto Favara alla fine dell’Ottocento raccolse un canto di tonnara che racconta come la tonnara di San Vito lo Capo fosse andata in rovina perché il padrone non volle più fare l’elemosina alle chiese: “Tunnaredda di lu Siccu ammintuata, Comu pirdisti stu granni valuri / A prima la facivi quarchi annata, Pi l’agghiotta chi davi a lu patroni. / Ora l’agghiotta ci ha stata livata, Ti l’ha fata vidiri lu Signori. / Sette carrini la megghiu livata …”. La lezione deve essere servita, se intorno agli anni ’50 dello scorso secolo un monaco del santuario palermitano del Romitello veniva ospitato nella tonnara sanvitese e diceva messa fino a quando con la prima mattanza i padroni gli affidavano un “tonnarello nico, da 50 chili” da portare in dono ai confratelli, come ricorda l’ottantenne pescatore Giuseppe Lucido.

C’è, nella cappella settecentesca della tonnara di Bonagia, una statua lignea di Sant’Antonino che ogni mattina nella “tredicina” dedicata al Santo (1 – 13 giugno) veniva portata in processione al porto e sulla barca “bastardo” usciva in mare con i tonnaroti, per poi fare ritorno nella cappella a fine giornata, usanza che si è protratta fino al 1960 circa. Per i tonnaroti Antonino da Padova era il santo più importante, capace di mutare le sorti della stagione in un solo giorno, e in realtà le prime due settimane di giugno spesso riservavano le sorprese più belle per i rais ed i padroni. Ma Sant’Antonio non è stato caro solo ai tonnaroti: i navigatori portoghesi del XVI secolo non mancavano di portare sulle navi una sua statua, che veniva assicurata all’albero maestro; il santo era venerato e blandito, se però cadeva il vento e le vele pendevano inerti allora i marinai lo prendevano a frustate minacciando di gettarlo a mare se non avesse fatto spirare nuovamente la  brezza portante, salvo poi tornare a riverirlo quando il vento ricominciava a soffiare.

Il palazzo sommerso della tonnara, l’isola trovata e abbandonata ogni giorno nei tre mesi della pesca, per i pescatori è una entità che si identifica con i santi posti alla sua protezione: “Santo buongiorno” dice il rais levandosi il cappello penetrando con la sua barca nel recinto di rete, e “Bona notti, bona sorti, bona tonnara …” saluta quando è il momento di tornare a terra; in maniera simile si rendeva omaggio ai Lari protettori della casa, e un saluto identico nelle campagne siciliane si riservava ai “patruneddi ‘casa”, spiriti benigni posti a guardia della dimora che spesso assumevano le sembianze teriomorfe dei gechi: “buongiorno a tutta la compagnia”.

Il posto riservato ai Santi nelle tonnare siciliane è la cruci, un palo saldamente legato sulla intersezione dei cavi di sommo proprio sopra la bocca d’ingresso preparata per i tonni; su una tavola inchiodata a croce vengono fissate le icone dei santi protettori: Sant’Antonino, San Pietro, San Giuseppe, San Francesco di Paola, e delle Madonne che la leggenda vuole arrivate dal mare (a Bonagia: la Madonna di Trapani e quella di Custonaci). Sulla sommità del palo inoltre i tonnaroti mettono dei rami di palma e per questo la cruci viene chiamata anche “palma”. Le forti connotazioni religiose di questa pianta, le cui foglie adornavano i carretti e i “capioni” delle barche siciliane (la “pernaccia”, antico aplustre – aphlaston), vengono ignorate dai tonnaroti, che però nella “palma” sono riusciti a sintetizzare mirabilmente saperi empirici, sentimenti religiosi, conoscenza nautica e tradizioni secolari: quando non esistevano gli strumenti elettronici di navigazione (radar, Gps) la croce con i santi era l’unica emergenza visibile da lontano, su cui indirizzare la prua delle barche; se la corrente porta a fondo le reti, con esse si immerge anche il palo con la croce, e dalla porzione sommersa il rais è in grado di capire quanto violenta sia la stessa corrente; inoltre i “movimenti” della palma – graduale affioramento o affondamento – segnalano l’andamento della corrente, se in aumento o diminuzione. Sotto una spinta molto forte, finiscono sommersi anche i rami della palma che non si infradiciano al contatto dell’acqua, e allora i tonnaroti per significare che la corrente impedisce ogni operazione osservano “anche i Santi ‘nfunno avemo …”.

Quando da soli i Santi non riescono a tenere lontani i pericoli, come nel caso della terribile tromba marina, i tonnaroti continuano ad avvalersi delle pratich magico religiose tramandate dagli avi; un coltello '' nascuto '' ( senza punta ) non manca mai nelle tasche dei pescatori, che tenendolo ben stretto nella mano tracciano in aria i segni della croce e recitando le orazioni imparate la notte di Natale '' tagliano '' la traunara, che perde la sua forza e cade a mare (Giuseppe Pitrè, 1889). I tempi sono cambiati, e qualcuno non crede più al potere assoluto delle ‘razioni, ma di fronte alla violenza della natura si comporta come facevano il padre, il nonno e tanti ancora prima di loro: “Fora malocchio e dintra bonocchio …” prega Pio Solina, il quale però riconosce “non è sempre che mi riesce”.

VITA E MORTE

La tonnara è vita e morte nello stesso tempo. Il tonno viene catturato nel momento più importante della sua esistenza, quello della riproduzione. La stagione degli amori è anche quella della sua uccisione. Fino all’ultimo, quando i corchi già affondano nella carne, il tonno continua a regalare vita al mare, espelle i prodotti delle gonadi rigonfie e le uova trasportate dalla corrente vengono fecondate dal lattume dei maschi; era stata proprio
la pulsione vitale a tradirlo nell’istante in cui nel blu della profondità, volgendo la pancia turgida (surra) ai raggi del sole per un amplesso senza contatti, si era svelato agli occhi dei tonnaroti che cercavano la surriata per indovinarne la presenza.

La morte del tonno si traduce in vita per la comunità che affida alla pesca la sua sussistenza, e proprio per questo i tonnaroti da sempre ne esorcizzano l’aspetto ferale ricorrendo a rituali ed artifici dialettici che pongono in risalto piuttosto il suo ruolo positivo. Così la denominazione “camera della morte” per indicare l’ultimo vaso dove avviene la mattanza, è riservata alle descrizioni degli osservatori meno attenti ma non viene mai usata dai pescatori, che le preferiscono la più gentile “leva” (vi avviene la “levata” dei pesci) o meglio ancora il poetico “corpu”: corpo fecondo, in grado di generare la vita, che “partorisce” i pesci e dunque il benessere della comunità.



Sul bordo inferiore della porta di rete che immette nel “corpu” vengono intrecciati i fiori gialli della primavera, simbolo della rinascita della vita dopo il freddo inverno: “ciurìu Solanto”, fiorì Solanto, esultavano i pescatori quando si faceva la prima mattanza nell’omonima tonnara palermitana. Oggi nessun tonnaroto riesce a dare una motivazione plausibile ai fiori intrecciati nella “custura l’erva”, ma non è difficile leggere nella consuetudine la contiguità con le tradizioni contadine che agli “spiriti della vegetazione” che vivono fra gli alberi assegnano il potere di fare crescere il grano e rendere feconde le donne. Fiori colorati di maggio coprivano le ferite del primo tonno catturato nelle tonnare palermitane portato in giro per il borgo marinaro dai pescatori accompagnati dal suono dei tamburelli (Giuseppe Pitrè), e del “rais cu li ciuri” cantano le cialome  intonate per uniformare lo sforzo degli uomini che alano a braccia le pesanti reti del “corpu”; un mazzo di fiori gialli e rossi non è mai mancato ai piedi del crocifisso della tonnara di Bonagia.

Al tonno che muore sui vascelli neri di pece il rais rende l’estremo omaggio, in quel momento diventa semplice “tunnina”, carne da vendere; tonno è quello sfuggito alle reti, libero per il mare, che corre dietro alle cicerelle per saziare la fame tornata a farsi sentire imperiosa dopo la “corsa” d’amore. Quel pesce poderoso e leale non è un nemico da combattere, ma un valoroso avversario con cui confrontarsi da pari a pari: “A tutti li tunni cercamu perdono” cantavano nel secolo scorso i tonnaroti di Pizzo Calabro, così come gli indiani d’america Cheyenne a fine Ottocento dedicavano la preghiera all’animale dal quale dipendevano le sorti della loro tribù: “Che questa freccia che ora incocco all’arco/ ti renda sacro, o Bufalo/ Che la terra benevola ti accolga/ Che tu possa trasformarti in un uccello d’aria …”.

UN CENNO SUI CANTI DEL LAVORO

Infine, due parole sul volume che la Pro Loco di San Vito lo Capo ha realizzato pubblicando gli atti del seminario “I suoni del lavoro. Canti e invocazioni dei pescatori siciliani”, che stasera ho il piacere di distribuire a chi ha avuto l’affettuosità di seguirmi. Il libretto – patrocinato dal Comune di San Vito e dall’Unione dei Comuni Elimo-ericini – raccoglie i saggi della direttrice del Museo Pepoli Valeria Li Vigni Tusa, della psicoterapeuta Rosalia Billeci, e un mio contributo sui “suoni della tonnara”, giusto per restare in tema.

I “suoni” della tonnara sono essenzialmente due: i Canti di Lavoro e le Invocazioni religiose.

Entrambi hanno la peculiarità di trovare motivazioni ed espressione in un contesto corale. Non si intona un canto né si recita una preghiera in solitudine, e questo per un fondamentale motivo: la tonnara è un lavoro/ambiente comunitario dove l’individualità non esiste – se non nella figura epica del rais, che pure nulla potrebbe fare al di fuori del contesto della costante collaborazione della “ciurma” dei tonnaroti.

In questo senso sia i canti che le preghiere devono coinvolgere tutti quanti partecipano al lavoro e da questo si attendono una risposta positiva alle loro esigenze sociali ed economiche.

 I fenomeni musicali della cultura tradizionale, e dunque anche della tonnara, sono sinteticamente divisi in tre categorie:

  1. i “ritmi tecnici”, che sono destinati a facilitare il lavoro in un contesto ergologico, dunque a coordinare lo sforzo dei lavoratori perché si muovano all’unisono;
  2. i “suoni segnale” destinati a trasmettere messaggi;
  3. i “suoni espressivi” dove prevalgono motivazioni simboliche ed estetiche.

Lascio alla pubblicazione ed a chi vorrà leggerla il dettaglio di quanto brevemente ho anticipato.

CONCLUSIONI

Oggi il tonno nel Mediterraneo viene pescato con le tonnare volanti che sono dotate di tutti gli strumenti tecnologici in grado di cercare, trovare, catturare il pesce che poi una volta ricostituite le riserve di grasso perdute nella corsa genetica viene immesso quasi tutto sul mercato giapponese dove viene consumato crudo. SUSHI.

Niente più vascelli al traino e lunghe attese sulle muciare nere di pece, dimenticate le preghiere e ogni pietà per il tonno ucciso; la tradizionale gastronomia mediterranea – il salato, lo “scapece” sott’olio, le interiora e le uova e il lattume – hanno lasciato il posto alle salse orientali. Nessuno sui moderni pescherecci spinti da motori di migliaia di cavalli teme l’arrivo della “boria” né della traunara. La “palma” è affondata sotto la spinta di una corrente nuova, troppo forte per contrastarla.

La tonnara come l’abbiamo conosciuta noi trapanesi è scomparsa. E con essa millenni di cultura. I bei pavimenti del Museo Pepoli restano una malinconica finestra su un’epoca tramontata per sempre. ''

Conclusa la relazione si è apero il dibattito cui hanno partecipato molti dei presenti. Fra le molte precisazioni richieste molti si sono chiesti: ' Perchè le tonnare tradizionali si sono estinte ? '. Il Dott. Ravazza ha nella risposta evidenziato come le tonnare tradizionali, a cui appartenevano tutte quelle della Provincia di Trapani, erano statiche e quindi se la stagione andava male, come sovente è avvenuto negli ultimi anni, non c'era la possibilità di rimediare perchè la tonnara non poteva essere spostata. Ben diverse sono invece le tecniche oggi adoperate nelle tonnare volanti dove i tonni vengono cercati in mare aperto nel corso dei loro spostamenti. Individuato il banco esso viene accerchiato con le reti di aggiramento ed una volta intrappolati vengono uccisi con metodi che ben poco hanno a che fare con quelli tradizionali e quindi recuparati a bordo delle navi che successivamente  continuano la loro battuta e ricerca. Nel corso di ciò impari è la lotta del pesce con l'uomo: nella mattanza tradizionale i due contendenti si confrontavano direttamente, anche se la battaglia era persa in partenza per i tonni, perchè la cattura era affidata solamente all'uso degli arpioni manovrati dagli uomini ed il pesce finiva in barca a forza di braccia. I tonnaroti tuttavia dovevano stare attenti ai pericolosi colpi di coda che il tonno ormai segnato dava nel tentativo estremo di sottrarsi alla cattura. 
Si è anche accennato ad eventi che si verificano soprattutto nel corso della notte durante le tempeste per effetti legati alla elettricità dell'atmosfera e noti come ' Fuochi di Sant'Elmo ' che tutti i marinai alle varie latitudini conoscono, ma di cui in genere hanno terrore per le modalità con cui si manifestano e per la luminescenza che conferiscono in genere alle strutture verticali di forma appuntita delle navi.
Altri hanno chiesto cosa aveva provato quando nel suo lavoro in tonnara gli era capitato di trovarsi di fronte qualche squalo o qualche pesce spada ed in che cosa consistesse la sua attività. A tutti il Dott. Ravazza ha fornito chiarimenti attingendo al suo bagaglio ed alla sua preparazione professionale precisando che nella sua attività il pericolo maggiore non erano i pesci ma quello di  restare impigliato nelle reti stesse e che il pesce più pericoloso era il pesce spada perchè sentendosi prigioniero poteva talvolta anche caricare. 

Chiusa la discussione, a ricordo della serata il Prof. Valenti ha offerto all'oratore il tradizionale piatto in ceramica ed il libro
'' Giuseppe Errante - pittore trapanese '' di recente pubblicazione.

Il Dott. Ravazza ha contraccambiato distribuendo a tutti i presenti una copia del libretto '' I suoni del lavoro - Canti ed invocazioni dei pescatori siciliani '' pubblicata a cura dell'Associazione Turistica Pro Loco San Vito Lo Capo.

La serata si è conclusa con le foto di rito e con l'arrivederci al prossimo incontro di sabato 12 maggio 2012 nei locali dell'Associazione alle ore 18.00. 

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