2012 - 06 - 09 : Prof. Salvatore Bongiorno - Antonio Canepa e il separatismo siciliano
'' ANTONIO CANEPA "
" Quando faremo la repubblica sociale in Sicilia i feudatari ci dovranno dare le loro terre se non vorranno darci le loro teste", cosi scriveva Antonio Canepa, indipentista, anarco-socialista nel 1943.
Ma chi era Antonio Canepa?
Era un cospiratore per vocazione, come l'ebbe a definire il suo compagno di lotta Attilio Castrogiovanni.
Nasce a Palermo il 25 ottobre del 1908; il padre, Pietro, è un noto giurista, docente universitario, la madre è la nobildonna Teresa Pecoraro, sorella dell'on. Antonino Pecoraro del Partito popolare e cugina dell'on Franco Restivo, più tardi ministro della Repubblica.
Non è facile tracciare un profilo di Antonio Canepa, personaggio chiuso controverso, idealista e misterioso, anche per chi lo conosceva bene.
A ventidue anni si laurea brillantemente in legge a Palermo, compie il servizio militare come ufficiale e nel 1933 progetta un velleitario colpo di stato contro la Repubblica di San Marino, per sollevare l'attenzione contro i pericoli del totalitarismo fascista.
Il progetto muore prima di cominciare, ma il fratello Luigi e un altro giovane vengono arrestati a San Marino e verranno rilasciati dopo due anni.
A Canepa finisce meglio, perché arrestato, grazie all'intervento della potente famiglia della madre, evita il processo, si fa ricoverare in una clinica per malattie mentali e da li a poco esce e inizia la carriera universitaria.
E' indubbio che la sua influente parentela gli facilita l'insegnamento universitario, ma è pur vero che il suo vasto ingegno e il suo vasto sapere giustificano la libera docenza di Cultura e Dottrina del Fascismo e di Storia delle Dottrine politiche.
A Catania, durante quegli anni vive una vita intensa, insegna all'università, scrive buoni libri sul fascismo e contemporaneamente, grazie all'amica famiglia dei Nelson della Ducea di Bronte, entra nelle file dei servizi segreti inglesi.
In questo periodo intraprende la doppia attività; da un lato severo docente universitario, dall'altro, con lo pseudonomo di Mario Turri, comincia ad organizzare l'opposizione al regime, guadagnando alla causa alcuni studenti, con cui nel 1943 mette in atto un sabotaggio contro il vicino
aeroporto di Gerbini, adoperato dai tedeschi.
E' sempre in questo periodo che scrive un violentissimo libello antitaliano " La Sicilia ai siciliani", che viene diffuso sotto forma di ciclostilato e dato alle stampe dopo l'occupazione alleata.
Nella "La Sicilia ai siciliani", Canepa considera possibile una rivoluzione sociale in Sicilia, attraverso la lotta indipendentista; anzi è convinto che i baroni, i feudatari siciliani, che pur stanno dietro il movimento indipendentista, con la separazione della Sicilia dall'Italia, sarebbero stati
travolti sul piano sociale e politico.
Non c è dubbio che "La Sicilia ai siciliani" fa da contrappunto all'opuscolo "Elogio del latifondo siciliano" di Lucio Tasca, grande proprietario terriero del palermitano, che, dopo aver prospettato la realtà immodificabile del latifondo, sostiene in chiave decisamente conservatrice, la tesi del distacco della Sicilia.
Il Canepa, nel suo opuscolo, prende le mosse dall'insularità, presupposto naturale dell'indipendenza che è lo status per definizione della Sicilia.
Cita Francesco Nitti che aveva dimostrato come nel 1860 il Piemonte, in deficit cronico, annettendo il meridione, aveva riversato sulle spalle dei meridionali e, soprattutto dei siciliani, i suoi debiti, le sue tasse e il suo deficit.
"Molti dimenticano", scrive " che, nel 1860, proprio prima dell'Unità, la Sicilia da sola aveva una bilancia commerciale con un attivo di trentacinque milioni, mentre quella del Piemonte non toccava i sette milioni....Dimenticano che il Regno delle Due Sicilie aveva portato al nuovo Stato 443,5 milioni di monete d'oro e d'argento, mentre tutti gli altri stati italiani, Piemonte compreso, arrivavano esattamente alla metà."
Cita Sonnino, Giustino Fortunato, Colaianni, Lombardo Pellegrino e sul fascimo scrive che "in tutto il continente sono state elettrificate le ferrovie, ma in Sicilia no. In tutto il continente ci sono i doppi binari ma in Sicilia ce n'è ancora uno solo e i treni sono quelli del secolo scorso, pieni di
cimici e di pidocchi ".
E ancora. "Le strade di campagna dove sono? A Mussolini i 2000 Kilometri di strade che abbiamo in Sicilia sono sembrati troppi e cosi ha preferito andarne a costruire altri 40000 in Etiopia
Da questo escursus Canepa conclude che "la Sicilia si è trovata male sotto qualunque governo che non fosse siciliano. Si è trovata malissimo sotto il governo italiano e si è trovata peggio che mai sotto il governo fascista... Per i siciliani è questione di vita o di morte. Separarci o morire."
E' facile rendersi conto come l'opuscolo di Canepa, con la sua convinzione di una Sicilia ubertosa e ricca, solo se autonoma, risulti per certi versi velleitario e passionale, se però lo si colloca nel tempo in cui fu scritto e se ne mettono in rilievo le causali politiche, si possono trovare in
esso alcune intuizioni valide inerenti le problematiche meridionaliste.
Fervente sostenitore della riforma agraria, ritiene che l'idea indipendentista sia l'espressione della base popolare; da qui la scelta di essere presenti all'interno del separatismo per indirizzare positivamente queste forze popolari.
Come tutti i guerriglieri non ebbe una precisa identità politica; sul piano ideologico si può dire che si limitava ad una accettazione acritica del marxismo, che dava un sottofondo popolare alla sua concezione indipendentista, tant'è che Sciascia afferma che la sua appartenenza al partito comunista, citata da qualche storico, non è provata da alcun documento ufficiale.
Uomo di studio, ma soprattutto d'azione, nel 1944 lo troviamo a Firenze che partecipa alla lotta partigiana, ma quando la Sicilia viene liberata si fa trovare a Catania e li rimane fino al 17 giugno del 1944, quando al bivio di Randazzo in contrada Murazzu Ruttu viene ammazzato insieme a due
suoi studenti guerriglieri in una imboscata dei carabinieri.
Ma ritorniamo indietro.
Quando gli anglo-americani, il 10 luglio 1943 sbarcarono in Sicilia, l'operazione d'invasione fu nominata in codice "Husky siberiano", cane da slitta, forse perché la semplice invasione dell'isola era considerata come una spinta sufficiente per far crollare il fascismo e far uscire l'Italia dalla
guerra.
Infatti, pochi giorni dallo sbarco, le truppe alleate avevano occupato gran parte del territorio isolano, il 25 luglio cadeva il fascismo, Mussolini era posto agli arresti e il re d'Italia, Vittorio Emanuele III, nominava il generale Badoglio, a capo di un governo già funzionale alla richiesta di
armistizio.
Non credo che risponda sempre al vero il fatto che siciliani accolsero con manifestazioni di esultanza l'arrivo delle colonne alleate; è più giusto dire che gli applausi non erano tanto diretti alle truppe d'occupazione quanto alla fine del terrore delle bombe, delle tante sofferenze che ogni guerra porta con se e, cosi come era scritto nei volantini lanciati dagli aerei, alla fine della fame.
Né ritengo, al di là delle tante voci di un certo immaginario collettivo, che la facilità delle operazioni militari d'occupazione dopo sbarco sia stata dovuta ad accordi intercorsi tra i capi della mafia siciliana e gli alleati, attraverso l'intervento del mafioso americano Lucky Luciano.
Ciò non è confermato da nessuna ricerca storica, se non il fatto che gli americani per presentarsi ai siciliani si siano avvalsi di immigrati italiani o figli di italiani ormai cittadini americani arruolati nel loro esercito.
La mafia in Sicilia nel 1942-43, dopo la cura Mori, benché fosse in rapporti d'affari con il gangsterismo americano, non aveva tanto potere contrattuale, non era allora cosi potente da contribuire alle sorti militari degli invasori.
Lo stesso Lucky Luciano in quel periodo era rinchiuso nelle carceri americane, dalle quali venne liberato solo nel 1946, grazie al contributo che aveva offerto non per lo sbarco in Sicilia ma per il "Piano LL" e cioè l'aiuto della malavita siculo-americana al governo statunitense per stroncare gli atti di sabotaggio che venivano sferrati nei porti e negli aeroporti americani da parte dello spionaggio italo-tedesco.
E', invece, innegabile che l'occupazione militare alleata coincise con una notevole ripresa della mafia, che parve favorita dalle stesse forze di occupazione che, per sette mesi amministrarono la Sicilia in nome e per conto dell'Amgot (Governo militare alleato per i territori occupati).
Gli Alleati ignoravano allora che le due sillabe della parola Am-Got in lingua turca indicavano rispettivamente gli organi genitali maschile e femminile e, alla fine, quando qualcuno lo fece notare la sigla venne abbreviata in AMG. Il comportamento di taluni militari dell'Amgot, in effetti, legittimò il sospetto di una strisciante connivenza con la mafia e col separatismo.
Il tenente colonnello Charles Poletti, di origine italiana, già ex vice governatore dello stato di New York, nel periodo in cui per conto dell'Amgot governò la Sicilia, si attorniò di individui non certo
raccomandabili, come il gangster italo-americano Vito Genovese, suo interprete e uomo di fiducia e il capo della mafia siciliana Calogero Vizzini, nominato sindaco del suo paese, Villalba, ove il 16 settembre 1944 fu coinvolto nei colpi di pistola che ferirono Mommo Li Causi, solo colpevole di tenere un comizio ne suo paese.
E' noto che il governo militare alleato nella prima fase dell' occupazione si muoveva nella logica di dover evitare la collaborazione dei partiti politici italiani, appena ricostituiti e scelse in prevalenza elementi consigliati dal clero e dai maggiorenti locali.
Tale fenomeno si accentuò soprattutto nella provincia di Palermo, dove non fu di poco conto, sul piano politico, la nomina a sindaco di Palermo del conte Lucio Tasca, notoriamente capo storico del movimento separatista.
Naturalmente bisogna guardarsi dalle generalizzazioni.
Ad incarichi di fiducia furono nominati anche antifascisti integerrimi, che niente avevano a che vedere con la mafia; valgono per tutti, l'on Francesco Musotto nominato prefetto di Palermo, Paolo D'Antoni a Trapani e l'o.n Pancamo ad Agigento.
Nella Sicilia occupata, in un periodo cosi pieno d'incertezze e di disorientamento fu Il MSI (Movimento per l'indipendenza della Sicilia), a lanciare la proposta di una repubblica siciliana, che rappresentava il tentativo di chiudere definitivamente con la guerra, con chi l'aveva provocata (Mussolini) e con chi non era stato capace di assicurare un ritorno onorevole alla pace (la monarchia).
Il MIS, pur se non sempre unitario nei fatti, riprendeva i temi e i toni dell'ideologia sicilianista, forte dell'atavica esigenza separatista che aveva contraddistinto i Vespri (1282) con l'Antudo (Animus tuus Dominus - Il coraggio è il tuo Signore) e la bandiera giallo-rossa con la Trinacria che diventerà il vessillo della Sicilia al centro delle rivolte pre-unitarie di Messina nel 1647 e 1678.
D'altra parte tutto il XIX secolo è impregnato di ideali indipendentisti dal 1812, al 1820, al 1848 con Ruggero Settimo, nonché la rivoluzione del "Sette e mezzo" del 1866 e gli stessi "fasci siciliani" del 1892.
Per il bombardamento di Messina del 1848 Ferdinando II di Borbone fu bollato come Re Bomba, per quello di Palermo del 1860 Francesco II si guadagnò quello di Bombino, mentre per il bombardamento della stessa Palermo nel 1866 Vittorio Emanuele II era e rimase il re Galantuomo.
Cosi va la Storia.
Finocchiaro Aprile, massone, politico e parlamentare d'estrazione giolittiana, più volte sotto-segretario di stato prima della guerra, fu il capo del movimento separatista e tentò di intercettare, nella crisi profonda che attraversava la società siciliana, quelle istanze indipendentiste che non
derivavano esclusivamente dalla guerra perduta né dall'occupazione straniera, ma dalle amare vicissitudini siciliane nel quadro di una più vasta situazione storica.
Tutta la propaganda separatista poggiava su una presunta ricchezza naturale della Sicilia e sulla sua auto-sufficienza, dimostrata dall'attivo delle esportazioni rispetto alle importazioni.
Ciò ovviamente non corrispondeva alla realtà, semmai era segno di povertà, di arretratezza, non di ricchezza, ma in ogni caso, in quella realtà storica, era funzionale al gioco dei separatisti, convinti che nel cuore di ogni siciliano c'è sempre un fondo di nazionalismo isolano e che l'unità d'Italia aveva determinato un rapporto di odio-amore tra la Sicilia e il resto della penisola.
Ma sarebbe errato identificare l'idipendentismo siciliano con la figura di Finocchiaro Aprile, che voleva fare dell'indipendentismo un movimento al di sopra delle parti, una specie di cornice nazionalistica siciliana, entro la quale potessero muoversi le varie tendenze politiche, comprese le più estreme,
Certo giocò un ruolo fondamentale il fatto che i separatisti, il giorno dopo l'entrata a Palermo delle truppe della Settima Armata Americana, chiesero e ottennero di essere ricevuti dal capo dell'ufficio degli affari civili del governo militare alleato, tenente colonnello, Poletti.
IL "Memoriale", presentato da Finocchiaro Aprile, costitui il manifesto della piattaforma politica dei separatisti; vi si sosteneva che la Sicilia era stata ostile alla dittatura di Mussolini, che i siciliani aspiravano ad una Sicilia elevata a Stato sovrano, indipendente, repubblicano e che si
confidava fortemente nel giusto consenso dell'Inghilterra e degli Stati Uniti.
Insieme a Finocchiaro Aprile, sostenuto dal notabilato agrario e, con buona dose di verità, dalla mafia, nel M.I.S vi erano forze autenticamente democratiche; nel 1943 gran parte delle masse contadine aveva forti simpatie per il separatismo, e non solo nella Sicilia occidentale, controllata
dalla mafia, ma anche in quella orientale, dove la mafia non era ancora presente, e dove a guidare il movimento era il giovane professore universitario,Antonio Canepa.
Gran parte della storiografia ha spesso messo in connessione l'Indipendentismo con gli agrari e con la mafia, etichettandolo a senso unico, dimenticando, a mio parere, che nel Movimento, sin dalla nascita si ebbe un coacervo di tendenze, alcune delle quali erano decisamente retrograde, mentre altre erano aperte e sensibili alle sollecitazioni dell'avvenire.
Questa tendenza era particolarmente diffusa in uomini come Canepa, Varvaro, aperti alle esigenze sociali e contrari ai latifondisti, alla mafia e agli interessi degli agrari separatisti come il Duca di Carcaci o il conte Lucio Tasca.
Lo stesso Finocchiaro Aprile si guardò sempre dal prendere in considerazione la fame di terra dei contadini, cercando, invece, di scaricare l'attesa escatologica contadina verso una meta politica e non sociale come l'indipendenza siciliana, che avrebbe risolto tutti i problemi e dato benessere a tutti.
Era il modo più semplice, anche se semplicistico, di accontentare tutti, latifondisti e contadini e di risolvere i conflitti di classe.
Di fatto, malgrado le riserve e gli attacchi degli altri schieramenti politici antifascisti (democristiani, socialisti, azionisti, comunisti) che subito dopo l' otto settembre si andavano organizzando fra notevoli difficoltà, il separatismo condizionò per alcuni anni la vita politica e sociale siciliana
ed indirettamente con le sue battaglie i suoi proclami, ed anche con la sua sconfitta, contribui alla realizzazione del futuro Statuto autonomista della Regione Siciliana.
Infatti, dopo l'iniziale opportunistica "benevolenza" degli alleati verso i separatisti, a metà del 1944 emerse una aperta frattura dei rispettivi obiettivi strategici; il M.I.S. che rivendicava la separazione e l'indipendenza dell'isola e gli alleati che prefiguravano un regime di autonomia come soluzione intermedia che accogliesse le particolari esigenze della Sicilia nel quadro dell'unità italiana.
Quando il 10 febbraio 1944, la Sicilia fu restituita all'Italia, versava in condizioni assai gravi. La già povera economia dell'isola aveva subito colpi irreparabili dalla guerra; la fame e la miseria erano pane quotidiano,
mancavano i beni essenziali e necessari; il contrabbando, il mercato nero dominavano lo scambio delle merci e nelle città, in tutti i centri, regnavano squallore e desolazione.
Insomma, ovunque spettacoli di miseria indescrivibile.
Con la consueta puntualità di tutti i dopo-guerra era riapparso il brigantaggio, non vi era paese che non avesse, tra i propri cittadini, uomini affamati, che spesso per sopravvivere, e non solo, erano disposti a tutto e alimentavano bande di fuorilegge.
Per un sacco di grano, nel settembre del 1943, un ragazzo di Montelepre, Salvatore Giuliano, divenne un terribile bandito, che per sette anni tenne in scacco lo Stato e le sue forze, prima di essere ammazzato in circostanze, che ancora oggi alimentano i tanti misteri d'Italia.
Miseria, contrabbando, brigantaggio disegnavano il tragico triangolo della società urbana e contadina della Sicilia.
A ciò ovviamente si aggiungeva la mafia, male endemico, tipico dei nostri paesi, che, non estinta durante il regime fascista ma costretta a trovare riparo nella clandestinità, cominciava ad alzare la testa e a porsi come elemento strutturale del crimine e del malaffare.
Con la fine del governo militare alleato, dunque, il separatismo si trovò completamente isolato, anche perché si era fatta più continua e fattiva la presenza del C.L.N. ad opera dei rappresentanti politici, che da Roma intervenivano sui fatti siciliani e cominciavano a "calare" su Palermo.
E lo stesso Francesco Musotto, nominato primo Alto commissario governativo per la Sicilia dal governo Badoglio, accusato, forse ingiustamente, dai comunisti di simpatie per il movimento separatista, fu sostituito dopo pochi mesi, nel luglio del 1944, dal democristiano Salvatore Aldisio per conto del nuovo governo, espressione del C.L.N., presieduto da Ivanoe Bonomi.
L'insediamento di Aldisio nella carica di Alto commissario significò guerra aperta contro il movimento separatista; tutti i separatisti, o coloro che erano sospettati di esserlo, furono allontanati dalle cariche pubbliche, a cominciare dal sindaco di Palermo, Lucio Tasca.
Era la risposta del governo e del C.L.N. contro il pericoloso movimento eversivo dell'indipendentismo siciliano, che veniva considerato responsabile della renitenza massiccia dei richiamati alle armi, delle agitazioni sociali contro il carovita e contro l'azione repressiva della
polizia sui contadini, che diffidavano dei granai del popolo a cui erano costretti a conferire i propri prodotti.
Per la stagione granaria 1944 il governo romano aveva promulgato un provvedimento di conferimento obbligatorio di prodotti agricoli che prese il nome, un po' demagogico, di granai del popolo, senza tenere conto che il prezzo di conferimento era assolutamente insufficiente in rapporto ai costi di produzione, al costo della vita in perenne ascesa e al pericoloso richiamo del mercato nero.
I granai del popolo, cosi come era avvenuto per l'ammasso fascista, furono un completo fallimento; malgrado l'azione repressiva contro gli evasori, quelli piccoli perchè i grandi evasori, allora come oggi, godevano di una sorprendente immunità, fu dura e di vastissima proporzione, il frumento conferito fu meno di un terzo della quota minima prevista.
Gli stessi amministratori comunali furono ritenuti responsabili del buon esito dei conferimenti e nei comuni dove maggiore appariva l'evasione ai granai pubblici i sindaci furono destituiti, senza parlare dei tantissimi contadini che riempirono le carceri.
Ciò dette forza al MIS e fu naturale che gli indipendentisti incitassero apertamente all'evasione con lo slogan " Siciliani, il vostro grano sarà portato via, in continente. Difendetevi, difendendolo".
E fu naturale che la rabbia contro il nuovo richiamo alle armi alimentasse maggiormente il movimento indipendentista.
Infatti, poiché il governo Badoglio il 13 ottobre del 1943 aveva dichiarato guerra alla Germania, e reso cobelligerante l'Italia, alla fine del 1944 il subentrato governo Bonomi decideva il richiamo alle armi di alcune classi, per ricostruire l'esercito nazionale e prendere parte più attiva alle azioni
che le armate anglo-americane conducevano in Italia contro i tedeschi.
L'arrivo delle cartoline rosa di richiamo alle armi naturalmente faceva ricomparire il fenomeno della renitenza alla leva e tale fermento si trasformò ben presto in rivolta armata.
Dappertutto cominciavano ad apparire manifesti e scritte murali contro il reclutamento; " Non presentatevi", "Non si parte", " Morte ai Savoia", "Viva la Sicilia libera", "Siamo una terra invasa, non tocca a noi fare la guerra ". La prima sommossa si ebbe a Catania il 14 dicembre con l'assalto al Distretto e dilagò in tutta la provincia per coinvolgere tantissimi centri siciliani.
Ovunque si assalivano mulini, caserme, municipi, distretti, ovunque dimostrazioni che sfociavano spesso in tumulti con incendi, devastazioni, saccheggi.
Anche a Trapani si registrarono adunanze e dissenso. Si trattava, insomma, di uno dei tanti moti tipici della storia siciliana dal 1600 ai nostri giorni, caratterizzati dalla sollevazione del sottoproletariato cittadino e poi del contado.
Una repubblica separatista fu addirittura proclamata a Comiso e fu schiacciata dopo una vera e propria battaglia con nella quale ci furono decine di morti e feriti sia tra i rivoltosi che tra i militari italiani.
Tutto ciò non autorizza a credere, però, che ci fosse un piano insurrezionale programmato dagli indipendentisti; indubbiamente dirigenti di base del MSI furono implicati nella rivolta, soprattutto a Comiso dove fu inalberato il vessillo , ma essi più che essere la causa politica, ne seguirono gli effetti.
Naturalmente, data la vastità della sommossa, è impossibile generalizzare; ci furono centri nei quali la partecipazione degli indipendentisti fu più impegnata, altri in cui la colorazione ideologica del moto fu completamente diversa da quella indipendentista.
Ad esempio, Piana degli Albanesi, patria di Nicola Barbato, taumaturgo e capo popolo dei Fasci siciliani, alzò la bandiera rossa e per circa due mesi si realizzò una Repubblica popolare a tendenza anarcoide, guidata da un certo Giacomino Petrotta, poi per questo finito nelle patrie galere.
Alla fine i 14000 siciliani che si presentarono ai Distretti spesso con i ferri ai polsi e in mezzo ai carabinieri, furono considerati in sede politica un grande successo che dimostrava l'entusiasmo del popolo per la guerra di liberazione.
In verità rappresentavano meno di un quinto dei richiamati previsti ed erano stati in buona parte il risultato di rastrellamenti, di arresti o di pesanti minacce poliziesche alle loro famiglie.
I documenti dei tribunali militari dell'epoca che celebrarono migliaia di processi parlano abbastanza chiaramente.
Ciò a dimostrazione che il movimento separatista era effetto del profondo disagio della popolazione e non causa.
Non a caso a Palermo il 19 ottobre 1944, l'esercito italiano, come aveva fatto nel lontano 1898 a Milano il generale Bava Beccaris, poi vergognosamente insignito per questo dall'allora re Umberto I, sparò sulla folla, mentre era in corso un'agitazione popolare contro il carovita e uno sciopero di impiegati comunali.
Non è mai stato possibile conoscere il numero esatto delle vittime del massacro; di certo furono almeno trenta i morti, in larga parte bambini e ragazzi dai sette ai sedici anni, e i feriti furono molti di più del dato ufficiale, poiche tanti preferirono non presentarsi in ospedale per paura di essere individuati.
La Questura del tempo giustificò l'uso delle armi da parte dei soldati con motivi di legittima difesa, sorvolando sul fatto che solo undici di costoro erano rimasti feriti da schegge di bombe a mano, stranamente in uso alle stesse forze armate.
E fa riflettere il fatto che la strage di Palermo cade proprio un giorno prima che i separatisti, forti della loro consistenza numerica e del successo che la loro causa riscuoteva fra la popolazione, si apprestavano a celebrare il loro primo Congresso nazionale a Taormina.
Sul piano politico la strage di Palermo servì, anzi, all'Alto Commissario Aldisio strumentalmente per mettere fuori gioco i separatisti; con ineffabile spregiudicatezza vietò i funerali pubblici per le povere vittime, istitui in città lo stato d'assedio, ordinò la perquisizione e la chiusura delle
sedi del movimento separatista, come se il fatto che in quei giorni gli indipendentisti celebravano il loro congresso fosse in qualche modo collegabile con la protesta popolare e, dunque, con la strage.
Il risultato fu che indusse inevitabilmente questi ultimi a porsi fuori dalla legge, con la nascita dell'E.V.I.S. ( Esercito Volontario d'Indipendenza Siciliana), anche, come risposta all'azione di Aldisio e dei suoi complici politici romani.
In verità il nucleo dell' EVIS non nacque per decisione della dirigenza del movimento, alcuni la subirono, ma per iniziativa di Antonio Canepa, che tra l'altro non partecipò a nessuno dei congressi del MIS.
Un uomo come il comandante Turri risultava tanto prezioso come suscitatore di energie giovanili quanto scomodo, sia rispetto alla stessa nomenclatura del MIS, sia rispetto all'azione del democristiano Aldisio, deciso a bruciare in modo definitivo i sogni separatisti.
La breve stagione guerrigliera, la primavera di bellezza di Antonio Canepa e dei suoi giovani compagni durò cosi poco più di due mesi; essi, in quel periodo, non svolsero azioni di guerra, né atti di sabotaggio, ne tantomeno effettuarono azioni terroristiche, non uccisero, non ferirono e nemmeno spararono, arrivarono solo ad esercitarsi.
Sta di fatto che Antonio Canepa e due studenti che erano con lui, reduci da una visita al primo campo militare del suo esercito di volontari, trovarono la morte al bivio di Randazzo in un confuso conflitto a fuoco con una pattuglia di carabinieri, di cui esistono vari resoconti ufficiali.
E' singolare che il Questore e il Prefetto scrissero cose diverse.
Tali resoconti non spiegano a sufficienza le responsabilità dell'accaduto,
non chiariscono, per esempio, se il conflitto ci fu davvero o non si trattò di una sparatoria unilaterale dei carabinieri.
Non spiegano se ci fossero altri gruppi nascosti a sparare su Canepa, quando il motofurgone Guzzi 500 su cui viaggiava fu fermato, tanto più che il professore guerrigliero sarebbe morto, secondo quanto scrisse il Prefetto di Catania del tempo,"per lo scoppio di una bomba che lo stesso
deteneva in tasca".
Questa storia delle bombe nelle tasche delle vittime è un classico delle relazioni di polizia di quegli anni e non solo.
Non siamo in grado di sapere se si trattò di un incontro casuale o di un agguato accuratamente organizzato da quale misteriosa entità e con quali fonti di informazione, anche perché i pochi testimoni furono assai contraddittori e reticenti.
Non si capisce se davvero la pattuglia dei tre carabinieri intimò l'alt ad un posto di blocco, perché i guerriglieri non riuscirono a scappare e furono facile bersaglio, perché il fuoco dei carabinieri fu rivolto direttamente verso Canepa, anziché, come vuole la procedura, sulle gomme del mezzo.
Perché non venne redatto un verbale ufficiale e la ricostruzione dei magistrati si baserà poi sulle dichiarazioni dei singoli?
Perché, dopo lo scontro a fuoco Canepa ferito, venne lasciato per ore senza soccorsi e cosi mori dissanguato?
Perché solo un anno dopo il pretore rivelò alla compagna del professore il luogo della tomba e solo dopo dodici anni dai fatti narrati i resti di Canepa furono restituiti alla famiglia e tumulati nel cimitero di Catania?
Fu omicidio di Stato, uno tra i tanti che ci accompagnano nella nostra storia nazionale?
Intervenne logisticamente la mafia che con Aldisio aveva abbandonato le simpatie verso l'indipendentismo e si apprestava a passare armi e bagagli con chi da li a poco governerà l'Italia?
Quale che sia stata la verità sulla morte, siamo comunque in grado di conoscerne le immediate conseguenze; la sinistra del movimento indipendentista andò incontro ad una inesorabile liquidazione.
Lo stesso MIS, la cui forza rese possibile più di altri l'approvazione regia dello Statuto Speciale di Autonomia del 15 maggio del 1946, pur ottenendo nove deputati nelle elezioni regionali del 1947, già in quelle 1951 non ottenne alcun seggio e scomparve dalla scena politica.
Un'ultima considerazione personale.
Molti forse pensavano nel 1947 che l'Autonomia Siciliana potesse davvero rilanciare la nostra isola, la sua economia e gli interessi del suo popolo, oggi purtroppo vi è la mesta convinzione che la cattiva gestione dell'autonomia ha tradito l'anima siciliana e che la stessa autonomia è stata ed è un'occasione mancata.
Ma ciò non può essere certo imputato né agli indipendentisti né a Canepa, il quale saggiamente scriveva, a futura memoria, che " Se il popolo perde la forza di battersi le nazioni corrono sempre il rischio di essere maggiormente trascurate da quegli stessi figli che pervengono ai più alti fastigi del potere e del sapere."
Conclusa la relazione si è aperto un ampio dibattito cui hanno partecipato molti dei presenti che hanno assistito a quel periodo della storia della Sicilia che ha costituito l'argomento dell'incontro. Essi hanno apportato alla discussione la loro esperienza e hanno rivissuto il clima e le situazioni di quell'epoca.
Chiuso il dibattito, il Presidente dopo aver ringraziato il Prof. Bongiorno per l'interessante argomento oggetto dell'incontro ed averlo invitato a preparararne un altro per il Corso di Cultura del prossimo anno, a ricordo della serata gli ha offerto un piatto in ceramica ed il libro '' Giuseppe Errante - pittore trapanese '' di cui è l'autore.
Sono seguite le fotografie di rito.
La serata si è chiusa con l'arrivederci a sabato 16 giugno 2012 alle ore 18.00 nei locali dell'Associazione per il prossimo incontro e con la comunicazione che sono iniziate le prenotazioni per la '' Sagra del Cabucio '' in programma per il 1° luglio 2012 alla Pizzeria '' L'ancora '' di Lido Valderice e con la quale si concluderà la prima parte del programma del corrente anno sociale.