2012 - 12 - 08 : Prof. Antonino Cusumano - La memoria della mano, l'intelligenza delle cose e il potere delle parole

Ci scusiamo con i visitatori; la pagina è in allestimento.

Sabato 8 dicembre 2012 alle ore 18.00 nella Sala delle riunioni '' Antonio Buscaino''
dell'Associazione per la Tutela delle Tradizioni Popolari del Trapanese sita in Trapani via Vespri 32 si è svolto il tradizionale incontro settimanale previsto dal programma del XXVI Corso di cultura per l'anno 2012.
Nonostante la festività dell'Immacolata ed il tempo inclemente un numeroso gruppo di soci ha partecipato all'incontro la cui relazione è stata svolta dal Prof. Antonino Cusumano.
L'ospite, proveniente appositamente da Mazara del Vallo, è stato accolto dal Prof. Salvatore Valenti e dai presenti che gli hanno manifestato la loro simpatia ed apprezzamento.  


L'evento è iniziato, contrariamente alla normale prassi, con alcune comunicazioni di servizio della Presidenza riguardanti:
- la prenotazione per la Conviviale di fine anno programmata per giovedì 20 dicembre presso la sala inferiore del '' Panorama '' alle ore 18.00 e  nei cui locali si svolgeranno tutte le attività programmate per la serata;
- la predisposizione del programma '' Tour della Polonia '' previsto dal 21 al 28 maggio 2013. Poichè la sua realizzazione prevede un notevole anticipo delle conferme, sono già aperte le prenotazioni che dovranno essere effettuate al massimo entro la prima metà di gennaio 2013.
Il relativo programma di massima viene riportato nella Comunicazione n. 11 dell'anno 2012 nella Sezione Bacheca e sarà anche inserito per l'anno 2013.
- l'apertura della mostra '' Le ceramiche di Burgio '' domenica 9 dicembre alle ore 18.00 nei locali di Drepanum Antiquaria in Trapani alla quale tutti i soci sono invitati a prendere parte.

Terminate le comunicazioni, il Presidente ha brevemente presentato l'oratore che già altre volte negli anni precedenti ha partecipato alle attività dei Corsi di cultura dell'Associazione e lo ha particolarmente ringraziato per non aver voluto mancare all'appuntamento nonostante la giornata festiva e le condizioni inclementi del tempo.

Il Prof. Antonino Cusumano è docente a contratto presso la Facoltà di Lettere dell'Univervità di Palermo dove insegna Scrittura antropologica. E' autore di vari scritti, saggi e pubblicazioni alcune delle quali in collaborazione con Antonino Buttitta.

L'oratore ha aperto la sua relazione ringraziando l'Associazione per l'invito che gli è stato rivolto nonchè i numerosi soci presenti in sala e subito dopo ha iniziato a trattare il tema previsto per l'incontro.

Si riporta una breve sintesi di quanto esposto dal Prof. Cusumano e dallo stesso fatta pervenire cortesemente e con tempestività.

'' Le mani, le cose, le parole sono trama e ordito del tessuto della nostra stessa identità di uomini, di individui e di specie. Sono fondamentali cardini dell’architettura del nostro esistere, del nostro essere e del nostro divenire. Sono le strutture portanti della nostra filogenesi, della nostra storia di ominazione. La storia dell’uomo non è che la storia dell’interazione tra le mani e la voce, tra la parola e il gesto, e gli studiosi paleoetnologi hanno ampiamente accertato che il loro sviluppo genetico è stato sincronico. Tutto è cominciato dalle mani che l'uomo due milioni di anni fa ha liberato e ha trasformato da organi di locomozione a strumenti di prensione. Sono state le mani a sollecitare i processi cerebrali e a inventare il linguaggio.
 
Fare e rappresentare sono operazioni eminentemente umane, attività che segnano per definizione lo statuto dell’homo sapiens, il suo primato e la sua identità. Il destino della specie umana rimane, infatti, pur sempre legato all’esistenza di quel triangolo elementare: mano-linguaggio-corteccia cerebrale, su cui si è fondato il lungo e complesso processo di ominazione.
 
Qualcuno tende ancora a separare il fare dal rappresentare, il lavoro delle mani da quello della mente, attribuendo al primo i caratteri della ripetitività e della meccanicità tecnica, e al secondo i tratti distintivi della cultura e dell’arte, intesa quest’ultima come produzione intellettuale autonoma. E’ appena il caso di precisare che a questa concezione che enfatizza il valore della parola e esclude il fare dalla dimensione del logos, è sotteso un sistema ben identificabile di valutazioni ideologiche e morali, riconducibile alla dottrina fondante delle estetiche classiche, a quella nota tesi aristotelica che per prima teorizzò l’ordine gerarchico tra arti liberali e arti meccaniche, da cui discende tanta parte del pensiero cristiano e della filosofia occidentale, metafora di altre radicali antinomie che hanno attraversato la storia culturale del nostro umanesimo e oppongono, in corrispondenza di quel dualismo, lo spirito al corpo.
 
Gli studi antropologici hanno definitivamente chiarito che il fare e il rappresentare sono due aspetti indissociabili di un unicum continuum. Nel lavoro, in qualsiasi attività lavorativa, si coniugano dialetticamente e indissolubilmente due elementi centrali: progetto e esecuzione, rappresentazione e prassi. Non esiste opera intellettuale che non abbia supporto materiale, e analogamente non può esistere alcun manufatto che non presupponga esperienza accumulata e pensiero elaborato. Se cultura è tutto ciò che è prodotto dal lavoro umano, questo è dunque da intendersi come attività pratico-conoscitiva, compendio di mano e ragione, di gesto e parola, di tecnica e linguaggio.
 
Alla mano vanno dunque ascritti funzioni e saperi legati alla memoria operativa e logica. Alla mano si connette ogni esercizio mentale e ogni attività fattuale e simbolica. Nell'evoluzione della mano, che da mezzo di locomozione si trasforma in strumento di lavoro, di produzione materiale e di creazione intellettuale, è scritta la storia stessa dell'uomo, che si affranca dalle costrizioni dell'ambiente naturale e dà ordine, forma e significato al caos dell'universo. L'equilibrio istituito tra questi organi fondamentali per la sopravvivenza della specie – mano-linguaggio-cervello - è oggi seriamente minacciato dai fenomeni di crescente automazione che mirano a "liberare" le mani e il cervello dalle loro naturali funzioni. Si considerino, ad esempio, i casi di afasia connessi al generalizzato ricorso nei sistemi di comunicazione a codici altamente formalizzati. Si rifletta sull'avvilente ruolo di "premibottoni" cui siamo sempre più sovente costretti dall'uso passivo di queste macchine. Si osservino infine gli effetti prodotti dalla limitazione delle nostre capacità di percepire "fisicamente" uomini e cose.
 
Viviamo, senza averne piena consapevolezza, dentro un paradosso sul quale non si è riflettuto abbastanza: da un lato siamo vittime di una bulimia di oggetti, una sindrome postmoderna che ci porta a invocare il desiderio delle cose senza riuscire a trarre dal loro possesso alcun appagamento; dall’altro lato siamo immersi in un generale fenomeno di anoressia dell’esperienza, un progressivo assottigliarsi della materialità della realtà, un’accelerazione e un’implosione di contatti e di collegamenti accompagnate da una contrazione e da una deprivazione dei sensi e del sentire.
 
D'altra parte, la cultura delle tecnologie digitali e delle intelligenze artificiali, il cui trionfo può spingersi fino al punto da rendere obsoleta la scrittura manuale, rischia di preparare l'atrofia delle capacità prensili delle dita, mortificate nella meccanica operazione della digitazione. La perdita di quelle essenziali funzioni che erano alle mani affidate corrisponde alla privazione di precise facoltà mentali che a quei gesti e a quelle tecniche erano correlate.
 
Dalla regressione delle mani e della  memoria, dalla smaterializzazione delle cose e dalle mutazione antropologica delle nostre esperienze deriva anche la manipolazione della lingua, l'impoverimento delle parole, l'inquinamento delle nostre forme del comunicare. Per capire il disagio cognitivo del nostro tempo occorre guardare dentro al linguaggio, allo slittamento semantico e lessicale del nostro vocabolario.
 
A provocare e ad accompagnare il processo di decadimento di un Paese non è soltanto il progressivo calo dell’indice economico del prodotto interno lordo, il crollo sul mercato della competitività dei nostri prodotti, la penetrazione e l’invasione massiva di negozi e merci cinesi. L’italiano slabbrato e zoppicante che articoliamo in una sintassi sempre più grigia e opaca è altro e non meno significativo indice della generale decadenza civile e culturale della comunità nazionale. La crisi che attraversiamo comincia da qui, dall’impoverimento delle nostre facoltà linguistiche, dalla privazione dei tratti originari e individuanti del nostro lessico, dal pigro e passivo ripiegamento verso gli esiti di una lingua omologata e standardizzata.
 
Le parole sono come le persone: fragili e preziose. Anche loro possono ridursi all'anoressia, svuotate dall'assenza di elaborazione, o gonfiarsi nella bulimia, ingozzate di significati perversi. Le parole definiscono l'orizzonte nel quale viviamo. Noi siamo le parole che usiamo. C'è una forte connessione tra le qualità delle forme di comunicazione e la qualità della cultura politica di un Paese. Più il brutto diventa consueto, usuale, quotidiano, meno sembra brutto: vale per i paesaggi e vale per i discorsi. Ci siamo abituati alle battute al posto dei ragionamenti, alle invettive al posto della dialettica civile.
 
In uno specchio capovolto la moralità degenera in moralismo, la laicità è scambiata per laicismo, la giustizia per giustizialismo, la libertà si confonde con il liberismo. E così molte parole del lessico politico sono oggetto di manipolazione e di inquinamento: la parola “popolo”, per esempio, che è diventata sinonimo di telespettatore, consumatore, coincide con la platea dell'Auditel. Gli elettori sono clienti da adescare con la logica del marketing e la comunicazione politica si confonde con gli spot pubblicitari. Le campagne elettorali assomigliano ai consigli per gli acquisti. In questa interpretazione populistica della parola è possibile anche inventare l'esistenza di un popolo padano.
 
Gustavo Zagrebelsky ha scritto che “il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia. Più le parole si conoscono più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica”. La democrazia è dialettica, discussione, confronto, ragionamento comune, si fonda sulla circolazione delle opinioni e delle convinzioni. E lo strumento privilegiato di questa circolazione sono le parole, che sono beni comuni: come le piante vanno coltivate, come le persone vanno curate, come i monumenti vanno manutenzionate e restaurate. Con l'amore e la pazienza degli artigiani. Perchè “l'uomo non ha che le parole per dire anche quello che le parole non sanno dire”. (S. Labou Tansi). ''

Al termine della relazione che è stata seguita con molto interesse dai presenti si è svolto un dibattito nel corso del quale sono stati proposti vari quesiti e richieste precisazioni.
A tutti il Prof. Cusumano ha fornito risposte esaurienti, chiarificatrici corredate anche da ulteriori specificazioni talvolta supportate anche da esempi pratici.

Chiuso il dibattito, il Prof. Valenti a nome dell'Associazione ed a ricordo della serata ha offerto all'oratore il tradizionale piatto in ceramica.

L'incontro si è concluso con l'arrivederci a giovedì 13 dicembre 2012, festa di S. Lucia, nei locali dell'Associazione al
le ore 18.00 dove si svolgerà la tradizionale ed annuale ''Sagra della Cuccia''. 

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