2013 - 03 - 02 : Prof.ssa Lina Novara - Collezioni e collezionisti da Antonio Cordici ad Agostino Pepoli
Sabato 2 marzo 2013 alle ore 18.30 nella sala delle riunioni '' Antonio Buscaino '' dell'Associazione per la Tutela delle Tradizioni Popolari del Trapanese sita in Trapani via Vespri 32 si è volto il settimanale incontro previsto dal XXVII Corso di cultura; relatrice della serata la Prof.ssa Lina Novara.
L'ospite, che già più volte negli anni precedenti, ha partecipato alle attività dell'Associazione e quindi ben conosciuta dai componenti il sodalizio, è stata accolta dal Presidente e dai presenti con cordialità e simpatia.
Aperti i lavori, il Prof. Valenti, dopo una breve introduzione al tema della serata, le ha ceduto la parola.
La Prof.ssa Novara, Presidente dell'Associazione '' Amici del Museo Pepoli '', autrice di vari testi e ricerche nei vari campi dell'arte, docente di Storia dell'arte, ha iniziato la sua relazione ringraziando i presenti per la loro partecipazione, per il calore e l'affettuasità con cui è stata accolta e l'Associazione per averla ancora una volta invitata alle sue attività culturali.
Per gentile concessione della stessa si riporta di seguito il testo integrale del suo intervento ed al termine di esso la sequenza di immagini che nel corso della esposizione sono state proiettate a supporto dello svolgimento del tema della serata.
'' COLLEZIONISMO AD ERICE da Antonio Cordici ad Agostino Pepoli - ERICE - 2010
Nel secolo XVII diviene un fenomeno europeo ed il cardinale Richelieu raccoglie nella sua casa circa 500 pezzi, tra dipinti e antiche sculture.
In Sicilia compare a Messina nel secolo XVI con il nobile e colto Giovanni Pietro Villadicane che raccoglie soprattutto monete e suppellettili antiche. Nel XVII secolo a Catania i Benedettini fondano il primo museo, e a Palermo i Gesuiti istituiscono il “Museo Salnitriano” dal nome del fondatore, padre Salnitro.
Il secolo XIX vede sorgere importanti collezioni come quella del principe Ignazio Paternò di Biscari a Catania, di Giuseppe Cacopardo a Messina, di Corrado Ventimiglia e Agostino Gallo a Palermo, di Raffaello Politi ad Agrigento e di Agostino Pepoli a Trapani.
La presenza ad Erice di numeroso materiale archeologico – preistorico, elimo, punico, greco e romano - offre lo spunto a intellettuali e nobili, a partire dal secolo XVII, per raccogliere monete e “anticaglie”, termine con il quale si definivano gli oggetti del passato.
Così Antonio Cordici inizia nella prima metà del secolo XVII, per motivi affettivi, a collezionare nella sua casa monete e oggetti archeologici; Francesco Hernandez, sensibile al gusto per l’antichità e alla bellezza classica, nel XVIII secolo segue per passione la scia del Cordici; Agostino Pepoli, spinto dall’amore per l’antichità e l’arte, nel XIX secolo si dedica a raccogliere e a collezionare materiale archeologico.
LA COLLEZIONE CORDICI
Antonio Cordici (Erice 1586 - 1666), umanista, erudito, “archeologo” e primo dei collezionisti ericini, almeno finora conosciuti, probabilmente ereditò dal padre Giambiagio la passione per il collezionismo. Spinto dal desiderio di conoscere e tracciare la storia della sua Erice, si dedicò a studi e ricerche, avvalendosi delle conoscenze storiche e letterarie, derivanti dagli studi umanistici compiuti a Napoli e a Palermo. Pienamente convinto che senza la conoscenza della storia non si potessero studiare i monumenti, grazie al suo bagaglio culturale fu in grado di fare riferimenti a Platone, Polibio, Diodoro Siculo, Pausania.
Del suo aspetto fisico riferisce Castronovo due secoli dopo: … Era il Cordici di mezzana statura, corpulento, di colore plumbeo, di costituzione linfatica, di umore malinconico, ma a quanto a quanto, lepidissimo celiatore. Avea venerando i l capo e il volto. Laconico nel parlare, nello scrivere breve, rapido, denzo nell’andamento, nel fare, nel conversare dava la sembianza di un antico filosofo (Castronovo 1870).
Antico filosofo e antico saggio di quelli che non bizantineggiarono sterilmente sul sesso degli angeli, lo definisce Vincenzo Adragna (Adragna 1960).
Cordici ad Erice fu direttore dell’Archivio dell’Università, fondatore e presidente dell’Accademia dei Difficili, Giudice criminale e, nel 1625, consultore degli Spettabili Giurati.
Nella sua casa definita dall’arciprete Vito Carvini “Officina filosofica”, collezionava libri, manoscritti, monete, reperti archeologici, “anticaglie” (Carvini ms. secolo XVII).
Dalla Istoria della città di Monte Erice, manoscritta dal Cordici, affiora prepotente la passione che egli aveva per l’antiquaria e, anche se non fa riferimento alla collezione, fra le righe fa intuire che le monete che va esaminando sono in suo possesso, e solo qualche volta lo precisa (Cordici ms. secolo XVII).
Il Carvini (1644 - 1701) che vide la collezione, fece invece un’ampia descrizione dei pezzi nella sua Erice antica e moderna sacra e profana (Carvini ms. secolo XVII). La raccolta Cordici comprendeva circa 3.000 oggetti, in parte ereditati dal padre, in gran parte acquistati, o rinvenuti ad Erice: amuleti, idoli, statuine, vasi, resti di iscrizioni, orecchini, pendenti in pietra o in terracotta, medaglie e monete di vario tipo, una pietra d’anello con Iside, una medaglia di terracotta con volto abraso e palma sul rovescio, una moneta di pietra, una gemma “antica con la storia di Erice”, cioè con i simboli del fuoco (folgore), dell’acqua (delfino), dell’aria (caduceo), della terra (tronco secco).
Due secoli dopo, tra le anticaglie appartenute al Cordici il Castronovo indicava anche due fusti di colonnine marmoree, “uno più grande ed uno più piccolo, con iscrizioni arabe o puniche”, che erano stati rinvenuti a Trapani durante i lavori di scavo delle fondamenta della chiesa di San Rocco (Castronovo ms. secolo XIX). Le iscrizioni, per incarico del Cordici, furono studiate dall’annalista carmelitano Padre Lezzana che, nella prima, lesse un riferimento al porto di Trapani, chiamato “porto dell’eminente”, nella seconda, la data poco leggibile di un ampliamento dello stesso. Le due colonne furono lasciate in eredità dal Cordici ai Padri Conventuali di San Francesco di Erice e probabilmente da questi donati al conte Hernandez.
La collezione fu visitata da illustri personalità: lo stesso Cordici ci informa di avere ricevuto, nel giugno 1649, don Diego Requesens, arcivescovo di Cartagine e vescovo di Mazara “per vedere e dilettarsi di alcune antichità che io tengo” (Cordici ms. secolo XVII).
Altro importante visitatore fu George Walter (Georgius Gualterus), di Augsburg, studioso di epigrafia al quale si deve il più ampio corpus di epigrafi della Sicilia, e al quale il Cordici mostrò le iscrizioni in suo possesso. Ai suoi ospiti usava regalare degli oggetti, come due anelli con scarabei, donati rispettivamente a Don Carlo Maria Ventimiglia e al dottor Silvestro Rondelli, procuratore fiscale della Gran Corte (Cordici ms. secolo XVII).
Trattando delle monete di Giano, egli analizza le varie iconografie del dio in diversi periodi: quando in una moneta si trovano raffigurati due volti congiunti che sembrano appartenere ai due sessi egli fa riferimento al pensiero platonico e così si esprime: “Gli uomini nella loro prima origine nacquero attaccati alle femmine, e Giove per inconvenienza o convenienza volle che si dividessero, così ordinando ad Apolline che facesse. Sopra la tal favola molti platonici hanno scritto i loro discorsi accordandosi che il principio di quello habbia stato nei primi parenti Adamo ed Eva, che intendevano stessero prima congiunti insieme e che Dio, quando dalla costa dell’uomo formò Eva (come s’ha nella Genesi) li avesse diviso”.
Secondo Carvini che descrive la stessa moneta «con una colonna che si erige fra i due capi» e al rovescio una figura femminile stante che tiene nella destra un serpente e nella sinistra uno scettro, la colonna rappresenterebbe, allegoricamente, una delle due colonne in cui gli Egizi incisero ogni segreto prima che il mondo fosse inabissato dalle acque del diluvio; la figura femminile è interpretata come la moglie di Giano, mentre il serpente come simbolo della prudenza e della fecondità, di cui essa è portatrice.
I due eruditi individuano nella figura femminile raffigurata su alcune monete, Iside-Cerere, figlia di Cam-Saturno, venerata a Erice come una delle maggiori dee: Pegaso impennato, riprodotto sul rovescio, alludere invece alla «fama» di cui la dea Iside godeva a Erice, essendo figlia di Cam e sorella di Venere.
Su un’altra moneta viene ancora riconosciuta Iside, “Genio dell’Egitto … che nella luna figurarono perché diva la vollero”; il soldato in atto bellicoso, posto sul rovescio, con simbolo astrale, viene invece interpretato come allusione a Saturno, padre di Iside, “più di ogni altro esperto in questa scienza fra gli egittij stimatissima”.
La lettera A, sul rovescio di una moneta con Giano bifronte, allude secondo Cordici al “buono Genio dell’Egitto… e molto spesso solevano nei loro famosi obelischi intagliarla”; l’origine di questa “lettera sacra” deriva dall’Ibis, l’uccello venerato in Egitto: “Essendo la parte inferiore dell’Egitto inondata dal mare il quale era ripieno di fango e sporcizie che si era trascinato con sé dai monti dell’Etiopia, era divenuto esso impraticabile e per l’abbondanza dei serpenti inabitabile... Osiride, Re del paese, cercò da molte parti numero di questa razza di uccelli e inondandone la regione… questi uccisero de’ serpenti la copia”.
Il dio, dunque, notando che quest’uccello nel beccarsi le zampe formava proprio la lettera A, l’avrebbe inserita tra le sacre lettere.
Queste considerazioni di carattere iconologico e numismatico risultano oggi inattendibili: la ricerca e gli studi storico-archeologici e di numismatica hanno infatti raggiunto risultati di carattere scientifico decisamente più avanzati.
La maggior parte delle monete descritte e collezionate dal Cordici, in verità è riconducibile ad emissioni in argento e in bronzo delle città di Palermo, Lilibeo, Selinunte, Pantelleria ed anche di Cartagine come il Decadramma argenteo con testa di Kore e Pegaso, del 266-241 a.C.
Gli studiosi siciliani di antiquaria erano convinti che la presenza sull’isola di antichità non riconducibili al mondo greco-romano fosse da riferire alla civiltà egizia: tra questi il catanese Pietro Carrera, il trapanese Leonardo Orlandini e i due ericini Cordici e Carvini. Questa interpretazione si affermò in particolar modo in quelle località dove veniva rinvenuto numeroso materiale egizio o egittizzante, ritenuto prova inconfutabile della presenza degli Egizi in quel territorio.
Anche se nella ricerca di testimonianze “egiziane” gli eruditi rivolsero maggiore interesse verso il patrimonio numismatico, forse perché le monete erano ritenute i documenti più significativi, tuttavia spesso anche altri reperti vennero utilizzati a riprova della presenza egizia, con dimostrazioni che oggi risultano prive di fondamento reale. A tal proposito Cordici indica “una pietra marmorea… con le croci rotta in quattro pezzi… congiunti che si conserva nella chiesa di S. Maria Maddalena fuor la città, sotto le ruine del tempio di Venere che si dee credere habbia cascato dal tempio con due colonne, una rotta in tre… tengo io che sia stata intagliata dagli egitii”.
Il frammento di fregio che reca scolpite a bassorilievo croci greche gigliate, entro motivi romboidali incavati, alternati con motivi triangolari opposti ai vertici, si trova ora nel Museo Regionale “A. Pepoli” di Trapani. Classificato come prodotto di “arte bizantina” del secolo VIII, e così catalogato da Vincenzo Scuderi ne "Il Museo Nazionale Pepoli in Trapani" (Scuderi 1965, pp. 6, 29), con provenienza Erice, viene poi dallo stesso inserito come frammento di stipite fra gli elementi plastico architettonici provenienti da monumenti bizantini e romanici dei secoli IX-XIII (Scuderi 1978, pp. 19, 32). Nel ribadire il carattere tardo-bizantino, specie per la presenza di ovuli nello smusso marginale, che lo avvicinano ad un frammento rinvenuto ad Apornà (Creta), Scuderi fa riferimento ad un generico "vecchio inventario" del Museo Pepoli che indicherebbe la provenienza dall'antica chiesa dell'Annunziata di Trapani, cioè la cappella di S. Caterina dell'Arena, preesistente alla chiesa gotica trecentesca. Il Cordici attesta inequivocabilmente la provenienza ericina di questo bassorilievo, i cui motivi decorativi sono ricorrenti in ambito bizantino: il motivo romboidale è infatti presente in un ambone del VI secolo conservato al Museo Archeologico di Istambul; quello della croce all'interno di rombi orna un pilastro o un basamento di statua del V-VI secolo, dello stesso Museo (Novara 1997).
Altra importante moneta della collezione era il denario in argento di Considio Noniano, del 63/62 a.C., la prima ed unica rappresentazione del tempio di Venere Ericina (Novara 1978). “Tempio con un serraglio circondato da tre torri oggi anco in più con qualche variazione della porta della entrata, della quale se ne veggono i segni non nella fronte della torre, ma in un lato di altra torre” (Cordici ms. secolo XVII). Più verosimilmente ritengo che il “serraglio” sia da identificare con le mura elimo-puniche-medievali che proteggevano la città di “Eruc”.
Al fine di tramandare le immagini delle sue monete, il Cordici affida al sacerdote Matteo Gebbia il compito di riprodurle graficamente. Interessanti sono i disegni che questo apprezzato architetto-disegnatore esegue per il testo del Cordici: allo stesso si devono anche le illustrazioni del manoscritto del Carvini e alcune immagini di Erice del 1680. Nonostante la ricerca di fedeltà al dato reale, i disegni contengono tuttavia talune ingenuità ed incertezze prospettiche. La grandezza non è spesso corrispondente alle dimensioni reali, il tratto a volte è incerto e grossolano. Traspare una mano discontinua che disegna talvolta in modo puntuale e veritiero, talvolta in modo goffo e grossolano volti e profili, figure e animali. Apprezzabile comunque lo sforzo che il decoratore-incisore fa nel cimentarsi in questa impresa editoriale di non poco conto.
Egli diventa fantasioso e accurato nel disegnare l’animale posto sul rovescio di una medaglia di Giano, che propone anche ingrandito; qui il tratto si incrocia nella resa plastico-pittorica e la decorazione si fa dominante.
Curiosa e complessa interpretazione Cordici fa di questo animale che, a suo dire, contiene la spiegazione di tutta la vita di Agatocle, re di Siracusa: “la faccia somiglia ad un patera di terracotta ansata, che può importare che essendo egli giovinetto, esercitò l’arte del figolo. Il collo s’intende per passaggio… I primi piè di cammello lunghi, che lungo tempo stette dubbio e ambiguo di quanto dovea fare per effettuare i suoi vasti pensieri. Il cammello secondo Plinio significa ambiguità. La schiena di cavallo, ch’ebbe carichi, quando fu assunto al generalato dall’armi della patria. Gli ultimi piedi dell’elefante che divenne grande, cioè padrone e tiranno di Siracusa. La coda di leone che il suo fine fu di huom forte, poiché conoscendosi abbandonato dalla fortuna si gittò in una fornace e finì la sua vita. Senza sesso per la sua lascivia. Il lavoro di sopra e di sopraveste che usò egli quale ornamento. E per apertura di sotto dove trovasi, è il suo sepolcro fattovi da Pirro re degli Epiroti, suo genero che espugnò Erice. L’ultima moglie di Agatocle fu Egiti e penso che siccome i greci e i latini mettono sopra la sepoltura le scritture della vita dell’huomo ivi sepolto, così quella nazione vi mettea simili geroglifici che dichiaravano la qualità del defunto. E’ questa mia opinione confermata dagli obelischi che altro non sono che l’azione del trapasso da questa vita per cui si geroglificava”.
Ad un altro sacerdote, Antonio Castella, “che si diletta di disegni”, il Cordici affida nel 1648 il compito di riprodurre un anello con “pietra”, ritrovata misteriosamente spezzata, forse ad opera di uno “spirito” in essa contenuto. Per motivi altrettanto misteriosi il sacerdote, non ritrova i due disegni eseguiti per il Cordici.
Il Castronovo nelle Meditazioni: Musei, Anticaglie della montagna dell’Agro Ericino riferisce che l’erudito ericino lasciò per testamento, presso il notaio Curatolo, gli averi, la collezione e i libri al convento di San Francesco d'Assisi di Erice, fiducioso di affidare la sua preziosa raccolta a buone mani. Ma i frati dispersero quel patrimonio e ne vendettero la maggior parte: alcuni pezzi della collezione vennero in possesso del Gran Maestro dei Cavalieri di Malta e quello che avanzò dallo “sperpero”, come riferisce Guarrasi (Guarrasi 1870, IV, p. 132), costituì il fondo originario della raccolta del conte Francesco Hernandez.
Il Castronovo lamenta inoltre che i Francescani neanche si curarono di ricordare il Cordici con una lapide sulla sua sepoltura che, sempre secondo Castronovo, dovrebbe trovarsi “in qualche angolo della chiesa di S. Francesco” (Castronovo ms. secolo XIX).
Una parte della collezione, come vedremo successivamente, attraverso vari passaggi, è pervenuta al Museo Cordici.
LA COLLEZIONE HERNANDEZ
Francesco Hernandez, conte di Carrera (Erice 1737 - 1828), giurista, “antiquario”, studioso di archeologia, erudito collezionista “giunse a mettere su uno scelto museo di anticaglie soprattutto ericine. E quantunque l'avesse fondato sulle estreme reliquie del Museo Cordici…, pur tuttavia gliene aggiunse molte da sè medesimo” (Castronovo ms. secolo XIX).
La collezione, denominata “Museo Hernandez”, era considerata una delle più importanti non solo della Sicilia, ma anche d’Italia (Novara 1997).
Il conte era discendente da una antica famiglia spagnola alla quale apparteneva quel Francesco che nel 1588 si trasferì in Sicilia per ricoprire la carica di capitano d'arme.
Il nostro Francesco nacque ad Erice il 2 febbraio 1737; compiuti gli studi prima a Trapani e poi a Palermo, conseguì la laurea in Discipline Giuridiche presso l'Università di Catania e si iscrisse, nel 1760, all'albo degli avvocati presso i Supremi Tribunali del Regno. Fu giudice civile e criminale di monte S. Giuliano, avvocato fiscale presso la Corte Capitanale e giudice assessore della Corte Ecclesiastica. Per particolari meriti fu insignito del titolo di “conte di Carrera” con Real Decreto del 5 marzo 1785.
Illuminista, intenditore di numismatica, si dedicò nella sua Erice all'archeologia e al collezionismo negli stessi anni in cui si intraprendevano scavi a Siracusa e Agrigento e si fondava a Palermo la “Colonia della Società Colombaria di Firenze”, finalizzata ad incentivare gli studi di antiquaria. Sono gli anni in cui Ignazio Paternò, principe di Biscari, a Catania, e Gabriele Lancillotto Castelli, principe di Torremuzza, a Palermo, raccolgono e ordinano reperti archeologici nei loro palazzi.
“Questo Cavaliere ericino, illuminato conoscitore di nummografia ha riunito nella sua patria un numeroso accozzamento di monete siciliane puniche ed esotiche:
conserva altresì un gabinetto con alcuni monumenti di alcune antichità, di storia naturale e di vari altri oggetti indigeni e stranieri” (Di Ferro 1825, p. 308).
Egli stesso scrisse su Erice: Abbozzo delle notizie accadute in Erice, Ragguaglio storico di Erice, inviato all'editore Cesare Orlandi di Perugia per essere pubblicato nella “Storia di tutte le città d'Italia”, Rapporto sulle antichità di Erice, in risposta a mons. Airoldi, Real Deputato per il restauro e la conservazione dei monumenti in Val di Mazara.
L'Hernandez che al titolo nobiliare preferì sempre quello di “antiquario”, nella sua casa di Erice, sita nella piazzetta San Giuliano, raccoglieva più di 2.500 monete (d'oro, d'argento, di cuoio, di cristallo: greco-sicule, puniche, romane, arabe, normanne, spagnole), cammei, lucerne, contenitori di profumi, lacrimatoi, idoli di alabastro, bronzetti - tra cui una famosa statuetta femminile di offerente della seconda metà del VI secolo a.C. - bolli figulini e sigilli, tutti rinvenuti tra le rovine del tempio di Venere ad Erice, oltre ad oggetti di storia naturale, libri e manoscritti, tra cui Erice antica sacra e profana di Vito Carvini.
La raccolta di medaglie era una delle più ricche della Sicilia, ma quando nel 1921 la collezione fu acquistata dal Museo Pepoli era ridotta a soli 200 pezzi (Novara 1997).
Lo stesso conte usava regalarle ai visitatori illustri del suo museo come il principe Torremuzza, l'abate Chiopi, storiografo di Luigi XV, il pittore e viaggiatore francese Howel. L'antiquarium ericino ebbe altri importanti visitatori: S. E. Lilimbeg, comandante delle truppe austriache, il principe Paniatoski, nipote di Stanislao, ultimo re di Polonia, il Langravio d'Assia Philipstad, il principe elettorale Ludwig, poi re di Baviera.
Ciascun visitatore apponeva la firma e la data della visita nel “Registro dei visitatori”, ora al Museo Pepoli (Novara 1997).
A Ludwig che fu ad Erice il 10 novembre 1817, l'anziano conte “che gongolava di gioia” (Castronovo ms. secolo XIX) per le lodi tessute dal principe, regalò una testina di Iside in pasta vitrea, proveniente da Mozia, un cuore egizio e numerose monete greco-sicule. A sua volta il principe nel 1818, dalla Baviera, ricambiò l'omaggio con 48 medaglioni d'argento, raffiguranti i sovrani della sua dinastia dal 1174 al 1727.
Non sappiamo con quale criterio Francesco Hernandez avesse ordinato i pezzi della sua collezione in alcune stanze sia del piano inferiore che di quello superiore della casa di Erice: pensiamo ad una specie di wunderkammer dove erano raccolte anticaglie, naturalia, mirabilia, opere eterogenee per fattura, qualità e provenienza. Alcuni oggetti d'arte sicuramente provenivano dal mercato antiquario, altri, la maggior parte, erano prodotti dell'artigianato locale del corallo, dell'avorio, del legno tela e colla, dell'ambra, della madreperla (Novara 1997).
Naturalia erano fossili, lumache, serpenti pietrificati, arboscelli di corallo, gusci di conchiglie e due grosse mandibole di pesci.
Mirabilia erano oggetti rari e curiosi, indigeni e stranieri, come un antico breviario manoscritto in pergamena, i cui caratteri sorprendevano l'osservatore.
Come tutte le raccolte pubbliche o private che accoglievano oggetti di “arti minori”, soprattutto nell’Italia meridionale, quella Hernandez conteneva due esemplari di presepe. Ne faceva infatti parte il più “celebre” dei presepi trapanesi: quello in rame dorato, argento, corallo e smalti (fine sec. XVII - inizi XVIII), ora al Museo Pepoli, ampiamente studiato e riprodotto, per il quale si rimanda alla scheda del Catalogo della mostra “L'arte del corallo in Sicilia” (1986).
Mi sembra però opportuno segnalare l'esistenza di un esemplare “gemello” da me individuato nel Castello di Masino (Torino), già dei conti Valperga di Masino, ora del F.A.I., dall'identica struttura architettonica: un edificio classico in rovina con colonne, archi e rivestimento in bugnato, dove si svolge la scena della Natività i cui personaggi, in origine di corallo, sono ora posticci. Sicuramente i due esemplari sono stati eseguiti sullo stesso disegno, o forse nella stessa bottega (Novara 1997). Non conosciamo le vicende e i passaggi legati all'arrivo a Masino del manufatto trapanese, ma considerando che un altro presepe in corallo, simile ai precedenti, fu donato da un vicerè spagnolo ad un duca estense di Modena (poi trasportato a Vienna e dopo la prima guerra mondiale restituito all'Italia), ora nel Museo Nazionale S. Martino di Napoli, e che preziosi oggetti in corallo avevano una “destinazione aulica” e venivano spesso offerti a personaggi di corte o di alto rango, come la dispersa Montagna di corallo, inviata in dono dal vicerè di Sicilia a Filippo II di Spagna, viene facile ipotizzare che qualcuno dei ricchi conti Valperga avesse ricevuto in dono il presepe o lo avesse acquistato per la collezione del Castello: forse Carlo Francesco I di Masino (sec. XVII-1717), persona raffinata, aggiornato verso tutte le tendenze del gusto, dal guardaroba personale all'arredo del Castello, o Carlo Francesco II (1727-1811), il più famoso della casata, ambasciatore a Parigi, in Portogallo, in Spagna e viceré di Sardegna dal 1780.
Va inoltre sottolineato che i manufatti trapanesi in corallo erano molto apprezzati da collezionisti italiani ed esteri e che illustri famiglie come i Doria di Genova, i principi di Lignè a Beloil, i conti di Schoenborn a Pommersfelden, e poi i Whitaker a Palermo ne possedevano pregevoli esemplari.
L'altro presepe della collezione Hernandez è di piccole dimensioni, montato “su sughero con incrostazioni di madreperla e corallo grezzo e pastori di avorio in numero di cinque” (Inventario Museo Pepoli): Maria, Giuseppe, due pastori (uno genuflesso ed uno recante una pecora), una donna con un canestro di frutta sulla testa e un bambino per mano; Gesù Bambino è posticcio.
Elencato tra le opere di bottega dei Tipa, il manufatto è degno di nota per alcune peculiarità, prima fra tutte la composizione scenica che, sostituendo la tradizionale quinta architettonica simulante edifici in rovina, è formata da una grotta costituita da tanti piccoli pezzi di madreperla, di rametti di corallo, di pietre colorate che, con ciuffi di vero muschio, fanno da apparato alla scena della Natività.
La donna con canestro in testa è inoltre un personaggio ricorrente nei presepi attribuiti ad Andrea Tipa e in altri di bottega trapanese come nel già citato in corallo della stessa collezione. Completano la composizione presepiale quattro piccoli animali: due mucche con un vitellino (in alto) ed un cane.
Alla collezione appartenevano anche altri oggetti in corallo (ora nel Museo Pepoli): una placchetta ovale con Madonna con Bambino, in rame dorato, corallo, smalti (metà sec. XVII), dall'anomala iconografia che pone la Madonna sopra una mezzaluna, attributo solitamente pertinente all'Immacolata; un'acquasantiera ottagonale (prima metà sec. XVII), in rame dorato, smalto, argento e coralli, applicati con la tecnica del retroincastro, ed una coppia di capezzali identici, in rame e coralli, a sagoma esagonale e cimasa allungata terminante con una croce greca (Novara 1997).
All'artigianato trapanese sono inoltre da ricondurre le circa cinquanta statuine da presepe, singole o in gruppo, ora conservate nel Museo Pepoli, raffiguranti pastori, re magi, animali, eseguiti nei secoli XVII e XVIII, quasi tutti in legno tela e colla.
I pastori sono rappresentati in varie pose: seduti, inginocchiati, in cammino, dormienti, con bisaccia, con fiasca e con cornamusa (Novara 1997).
Dei pastori alcuni sono attribuibili al più famoso tra i “pasturari” trapanesi, Giovanni Matera, altri alla bottega di Andrea e Alberto Tipa (sec. XVIII), cui vengono riferiti un pastore dormiente e un viandante.
Di Calogero Mandracchia da Sciacca (1762-1833) sono invece le vivaci capre in cera, rappresentate in modo veristico e talvolta anche con un apprezzabile gusto macchiettistico come il gruppo formato da una pecora rampante e da una capra che colpisce un'altra con le corna; sua è anche una vacca in cera (Novara 1997).
Come in quasi tutte le collezioni private isolane, anche in quella Hernandez, la ceramica ebbe una parte dominante con esemplari di varia forma e provenienza: piatti, bombole, albarelli, vassoi, vasi ed altri oggetti di uso domestico o di farmacia: di produzione toscana, ligure, veneta, umbra, romagnola, napoletana e naturalmente siciliana (Novara 1997).
Non mancavano esemplari esteri:
- due significativi piatti ispano-moreschi, a lustro, con decorazioni geometriche, opere valenziane di fine sec. XVI - inizi XVII;
- un piatto svedese (sec. XVIII) con il marchio della fabbrica di Marieberg (nel retro), decorato con fiori policromi nel fondo e sull'orlo;
- una saliera, un vasettino e dei piattini del Giappone (secc. XVIII-XIX).
Della collezione facevano parte anche alcuni oggetti in vetro, per lo più di uso domestico: bicchieri, bottiglie, ciotole, anforette, pissidi, con qualche esemplare proveniente da Murano, di datazioni comprese tra i secoli XVII e XIX (Novara 1997).
Appartenevano alla collezione anche quattro “stampe” ora nei depositi del Museo Pepoli.
Un manufatto interessante è il cammeo d'ambra siciliana del sec. XVIII, piano da una faccia, convesso dall'altra, rappresentante una scena marina (Novara 1997): un veliero naviga in mezzo ad un tratto di mare increspato, compreso tra “case”. A sinistra sono collocati un edificio a doppio spiovente e una torre tra alberi, preceduti da una terrazza balaustrata che si affaccia sul mare, a destra una fortezza o un castello su cui vigila una guardia armata di lancia (minuscola figura sul tetto). E' questo uno dei rari esempi in cui l'ambra siciliana, dal colore particolarmente raffinato, viene usata per un cammeo, destinato forse ad essere montato su metallo pregiato. Sfruttando al meglio la spiccata fluorescenza del materiale, l'anonimo incisore, molto probabilmente trapanese, traccia il disegno sulla parte piana (retro) per farlo risaltare, attraverso la trasparenza, sulla parte convessa del cammeo (Novara 1997).
Nella ricca produzione degli artigiani trapanesi che nel secolo XVIII realizzarono piccoli capolavori con i materiali più svariati, si inseriscono due rari medaglioni in conchiglia bianca sulla quale sono incisi a bassissimo rilievo, rispettivamente San Francesco d'Assisi e San Francesco di Paola (Novara 1997): il primo è raffigurato appoggiato su di un libro aperto con le mani giunte sotto il mento, in atto di pregare il Crocifisso, posto sopra un teschio. Il Santo di Paola è invece in posa estatica e rivolge lo sguardo verso sinistra, mentre porta la mano destra sul cuore e tiene il bastone nell'altra.
Entrambi i cammei sono inseriti in un ovale di pietra nera, circondato da una cornice esterna in madreperla, formata da fiori, volute e foglie di gusto rococò. L'ignoto incisore dei due medaglioni (sec. XVIII), sfruttando abilmente la bicromia del materiale marino, fa ben risaltare dal fondo grigio le bianche figure dei due Santi e le nuvole che popolano le scene, anche se rivela qualche incertezza nella resa dei volti; più sicura è la tecnica esecutiva della cornice in madreperla (Novara 2003).
Sono molti i nomi degli incisori trapanesi tramandati dagli scrittori locali, che nei secoli trascorsi lavorarono i materiali marini, ma allo stato attuale solo pochi manufatti sono riconducibili al loro autore; ricordiamo i nomi di Andrea e Alberto Tipa, rinomati anche per la lavorazione dell'avorio e del legno tela e colla, Paolo Cusenza, attivo nel sec. XVIII, autore, fra altro, di un cammeo su ostrica con la personificazione del Nilo, Salvatore Mazzarese molto esperto, tra la fine del sec. XVIII e gli inizi del XIX, nella lavorazione del nicchio marino da cui ricavava cammei sfruttando il naturale contrasto di colore dei due strati della conchiglia, il bianco superficiale e il rosa sottostante.
Un oggetto singolare è il guscio di conchiglia, pervenuto al Museo Pepoli, che reca incisa sulla madreperla la Natività, dove il solco del bulino è ritracciato in nero per sottolineare il disegno: la presenza di un foro all'apice fa pensare ad un oggetto da appendere. Tutto intorno al bordo della conchiglia corre una cornice con motivi a zig-zag, realizzati ad incisione. Lo spazio interno è occupato dalla scena della Natività: Maria e Giuseppe sono inginocchiati davanti al Bambino, posto su di un giaciglio di paglia. Da dietro i mantelli dei due genitori compaiono le sole teste del bue e dell'asino. La tecnica dell'incisione, un po’ approssimativa, sembra avvicinarsi a quella delle stampe popolari o dei santini devozionali siciliani dei secoli XVIII e XIX. Non poche perplessità riguardo l' attribuzione suscita la presenza, nello stesso museo, di un altro manufatto simile, proveniente dalla collezione Pepoli, raffigurante San Michele nell'atto di scacciare il demonio e contenente due iscrizioni in arabo (Novara 1997).
Faceva parte della raccolta anche una grande cornice barocca in legno argentato, con luce ovale e sagoma esterna mistilinea; non sappiamo se ornava un dipinto o se, appesa ad una parete, faceva soltanto mostra di sè come oggetto d'arte: “non la vediamo quando guardiamo il quadro” perchè “la escludiamo dal suo campo semantico” scrive Jurij Lotman ne “La struttura del testo poetico”, dedicando un capitolo alla cornice, sia nel campo poetico che pittorico.
Realizzata sulla scia dei disegni ornamentali di Paolo Amato, la cornice è databile ai primi decenni del secolo XVIII.
Per evitare dispersioni della sua raccolta - come già aveva fatto il Cordici, ma ahimè, senza risultati – lasciava, con testamento olografo del giorno 1 ottobre 1821, la collezione ai frati conventuali di San Francesco di Erice, con l'obbligo di custodirla in una stanza fornita di tre chiavi da affidare rispettivamente al frate guardiano pro-tempore, al parroco di San Giuliano, all'erede universale del testatore. Nel caso in cui i Francescani si fossero rifiutati di custodirla, nominava erede il Collegio dei pubblici studi, fondato dalla Congrega del Purgatorio, con la clausola che le tre chiavi fossero tenute dal Superiore della Congrega, dal prefetto degli studi e da uno dei figli o dei consanguinei del conte. Come terza eventualità, nominava custodi i Reverendi Curati e Superiori dei Conventi, ferma restando la clausola delle chiavi “presso soggetti probi facoltandoli benanche, in caso di rifiuto, a potere trascegliere altro soggetto. Fatto sta che quella disposizione tanto saggia e filantropica non andò a sangue né dai P.P. Conventuali di S. Francesco, né dalla congrega del Purgatorio, né dei Curati e dei Superiori degli altri Conventi e però il cennato Museo d'altronde già mutilo per furti familiari, rimase in potere di Alberto Conte Hernandez figliolo e sparì quindi da Monte S. Giuliano” (Castronovo ms. XIX secolo).
Alberto trasferì infatti la maggior parte della collezione a Trapani e nella casa di Erice rimasero soltanto alcuni reperti e oggetti d'arte (Novara 1997). Castronovo riferisce di aver visto nel 1854 durante una visita al “palagio di monte S. Giuliano... solo pochi monumenti di minor conto” (Castronovo ms. secolo XIX), in parte pervenuti, in seguito, all'attuale Museo Cordici di Erice, in parte dispersi. Dopo il 1850 il conte Alberto donò la collezione al figlio Francesco jr. il quale “con immenso amore e solerzia, non curando spese e fatiche, l'ha totalmente arricchito da formare la compiacenza e l'ammirazione di tanti eruditi viaggiatori esteri i quali vi hanno fissato la loro attenzione”. Così scrive lo stesso conte jr. in una lettera del 18 gennaio 1887, indirizzata ad un anonimo preside, forse Astorre Pellegrini, preside del Liceo Classico di Trapani, che pubblicherà in seguito alcune epigrafi della collezione (Pellegrini 1866).
Sicuramente furono l'amore per la collezione e la preoccupazione che la mancanza di figli provocasse la dispersione della raccolta, nonchè il ricordo di esperienze familiari, ad indurre l'Hernandez a trattarne la vendita all'allora Civico Museo Pepoli; fu poi il nipote Orazio, figlio del fratello Giuseppe, che nel 1821 vendette i pezzi per la somma di £.40.000, agevolando il pagamento con dilazioni nel tempo. La data d'acquisto, riportata per tutti i pezzi negli inventari del Museo Pepoli è il 2 dicembre 1921.
Dal direttore del tempo, Antonio Sorrentino, furono subito approntate quattro nuove sale del Museo per accogliere i reperti archeologici e dare una sistemazione più razionale a quelli già presenti al “Pepoli” (Sorrentino 1923).
Diventata così da bene privato, patrimonio pubblico, la raccolta dei conti Hernandez subì per contingenti motivi di riordino all'interno della struttura museale, l'inevitabile smembramento e il dislocamento fra le sale e i depositi.
Gli scrittori che si sono interessati della collezione hanno fatto solo dei brevi cenni sugli oggetti d'arte in essa contenuti, indicando genericamente “vari oggetti”, come Di Ferro (Di Ferro 1825, p.135), o “una piccola raccolta di quadri”, come Mondello (Mondello 1883, pp. 67-69): lo stesso Castronovo (Castronovo ms. XIX secolo), seguendo una moda del tempo, elenca e descrive minuziosamente i pezzi archeologici ma tralascia il resto. La mancanza di dati e di inventari non consente di stabilire quali pezzi siano stati acquistati dal conte senior e quali dallo junior; il carattere eclettico della collezione giunta al Museo Pepoli e comprendente oltre ai pezzi archeologici, dipinti, sculture, oggetti d'arte decorativa e applicata, oggetti di vario genere e curiosità, non facilita una indagine in tal senso (Novara 1997).
Il Mondello nel 1883 scrive che il conte Francesco jr. possiede “una piccola raccolta di quadri” (Mondello 1883, pp. 67-69) comprendente: una Madonna di Pietro Novelli, un San Luigi Rabatà di Andrea Carreca, una Testa d'uomo, a lume di notte, di Mariano Rossi da Sciacca, un quadro del palermitano Vito D'Anna, un altro di Antonio Manno, copie del pittore Giuseppe Mazzarese. Il Castronovo aveva già riferito di avere visto, durante una visita effettuata nel 1854 “nel palagio Hernandez di monte S. Giuliano”, in una sala del primo piano, “una tela dipinta ad olio rappresentante il Beato Luigi Rabatà che credesi un buon lavoro di Andrea Carreca, chiarissimo pittore Drepanitano, discepolo di Pietro Novelli” (Castronovo ms. secolo XIX). Quest’ultimo quadro, con verbale del 24 febbraio 1924, fu dato in consegna alla chiesa del Collegio di Trapani, dove tuttora si trova, come si ricava dal Registro degli oggetti conservati nei depositi del Museo Pepoli (Novara 1997).
Quest’ultimo acquistò 39 dipinti: tele, tavole, piccoli quadretti su carta e su rame, con prevalenza di soggetti religiosi, tra cui un' Epifania su pietra lavagna, con cornice di ebano e pietra, alcuni paesaggi e qualche natura morta, collocabili in un arco di tempo che va dal XVI al XIX secolo. Ritenuti forse di poco valore, furono venduti quasi tutti, tranne il già citato San Luigi Rabatà, una Sacra Famiglia (inizi sec. XVIII), un ritratto del conte Francesco Hernandez jr. (1871) e un Amorino (sec. XIX), come risulta dal già citato registro degli oggetti conservati nei depositi.
La Sacra Famiglia è ora esposta nella sala degli arredi ecclesiastici: raffigura la Vergine vestita con una tunica rossa e un manto azzurro, in posizione seduta, mentre regge fra le braccia il figlio dormiente, a sinistra è San Giuseppe che contempla il Bambino. Per la grazia delle espressioni e le calde tonalità dei colori, l'opera si colloca nell'ambito di quella pittura sviluppatasi in Sicilia nel Settecento sulla scia del classicismo di Carlo Maratta e Sebastiano Conca, diffuso nell'isola da pittori venuti in contatto con l'ambiente romano e con i discepoli del Maratta, come Olivio Sozzi e padre Felice da San Biagio. La tela è ornata da un'elegante cornice di legno dorato, di gusto tardo-barocco, culminante in alto con una mezza conchiglia.
Il ritratto che il conte Francesco jr. nel 1871 si fece eseguire, in Trapani, dal milanese Carlo Prayer (1828-fine sec. XIX) - uno dei fondatori della “Scuola Grigia” di Genova, autore fra l'altro del ritratto di Gustavo Modena (1855), conservato presso la Civica Galleria d'Arte Moderna di Milano - è concepito secondo la tradizionale e accademica concezione che attribuisce al ritratto la funzione di diffondere l'immagine il più somigliante possibile al personaggio; il conte è raffigurato a mezzo busto, di tre quarti, su fondo nero, con lo stemma di famiglia.
La tavola raffigurante un Amorino - o meglio Cupido Dormiente con arco e faretra con frecce, sdraiato su di un drappo rosso, sotto un albero - attualmente è collocata in una delle sale della Soprintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali di Trapani, dove si trova dal 1986, come deposito del Museo Pepoli. Trattasi di una copia ottocentesca di un originale del pittore agrigentino Paolo Girgenti (secc. XVIII - XIX) probabilmente eseguita da Giuseppe Mazzarese (1755-1847), indicato dal Mondello come autore di alcune “copie” della collezione (Mondello 1883 pp. 67-69).
Il conte Francesco jr., fu uomo colto e “intelligente in cose d'arte”; quasi certamente aveva una personalità più versatile e più aperta del nonno legatissimo alla sua Erice e a tutto quello che ne riguardava la storia e le origini.
Francesco jr. allargò i confini della collezione con l'acquisto di oggetti provenienti dalle zone archeologiche di Marsala, Mozia, Selinunte, come si deduce da un inventario del 1890 non più reperibile (copia in Stassi, Cardella 1985/86), dalla corrispondenza tra il conte e studiosi del tempo e soprattutto da alcune lettere speditegli dal fratello Giuseppe, pretore di Castelvetrano, che lo infornava su alcuni acquisti di reperti archeologici (Novara 1997).
Ricevette anche dei pezzi in dono come un'anfora proveniente da Mozia, avuta da Giuseppe D'Alì nel 1867, o alcuni frammenti di oggetti preistorici ericini donatigli da Giuseppe Polizzi, vice bibliotecario della Fardelliana di Trapani, nel 1871.
Spinto da una grande passione per il collezionismo e per l'oggetto d'arte, raccolse così nella sua casa di via Carreca 8 a Trapani, una ricca collezione che gli dava anche occasione di studio e di “sapere”; indagava infatti sui suoi pezzi, si informava, chiedeva dati e notizie, scriveva a conoscenti, intenditori ed anche a studiosi e specialisti contemporanei.
Significative sono due lettere ricevute in risposta a sue richieste (Novara 1997): una inviata da Roma, in data 26 febbraio 1884, dall'archeologo Raffaele Garrucci che, congratulandosi con lui per il possesso di un Crocefisso bronzeo, “uno di quei pochi coronati con corona imperiale”, gli fornisce anche dati relativi alla cronologia del pezzo (XI-XII secolo), ed un'altra inviata da padre Bernardino Cusumano da Sciacca, in data 6 novembre 1880, con la quale il religioso comunica che Calogero Mandracchia è l'autore delle capre in cera possedute dal conte.
Poco sappiamo sull'ordinamento della raccolta che il conte definisce Gabinetto Archeologico, ma che preferiamo denominare, alla francese, Cabinet d'amateur, includendo anche gli oggetti d'arte e le curiosità. Da una copia dell'inventario del 1890 si ricava che i pezzi archeologici erano ordinati in almeno sette armadi con cassettini, fino ad un numero di ventiquattro. Nel primo armadio erano riposti prevalentemente oggetti in oro, nel secondo pietre dure e argenti, nel terzo scarabei egizi, nel quarto oggetti in vetro, ferro e piombo, nel quinto marmi, nel sesto bronzetti, nel settimo oggetti di terracotta.
Forse a Francesco jr si deve l’acquisizione del cosiddetto Trittico, indicato nell'inventario del Museo Pepoli come “pregevole lavoro del sec. XVI di Antonello Gagini” ma, verosimilmente da riferire ad un artista operante in Sicilia sulla scia lasciata da Francesco Laurana e Domenico Gagini, dai modi artigianali e accademici (Novara 1997). Consta di due rilievi raffiguranti San Domenico e San Pietro Martire e di una lunetta con la rappresentazione della Pietà e simboli della passione, quasi certamente non pertinente.
Si ignora la provenienza dei due rilievi con i santi domenicani, la cui presenza fa ipotizzare la collocazione originaria in una chiesa dedicata a San Domenico, forse quella di Erice (ora trasformata in sala convegni del Centro di Cultura Scientifica Ettore Maiorana), o quella di Marsala (non più esistente); la chiesa domenicana di Trapani era provvista di un'icona marmorea, ora nel Museo Pepoli.
Dubito che autore dei due rilievi sia stato Antonello Gagini, per talune durezze del modellato e qualche incertezza tecnica; propendo per uno degli scultori operanti in Sicilia agli inizi del '500, come Bartolomeo Berrettaro, Giuliano Mancino, Francesco del Mastro.
La lunetta con la Pietà e simboli della passione - colonna, gallo, chiodi, lancia, spugna, brocca, bacile, mano - realizzati a bassissimo rilievo sulla superficie, mi fa ipotizzare la provenienza dall’icona della cappella del SS. Sacramento della Chiesa Madre di Marsala, eseguita in parte da Bartolomeo Berrettaro, in parte da Antonello e Giandomenico Gagini (Novara 1997a), e della quale il Di Marzo rileva la mancanza del frontespizio (Di Marzo 1883): dalla descrizione che lo studioso fa di esso, risulta evidente la corrispondenza con la scena rappresentata nella lunetta della collezione Hernandez. Il conte potrebbe esserne venuto in possesso dopo il crollo della cupola della Chiesa Madre di Marsala, avvenuto nel 1893, nel periodo in cui ricopriva la carica di “Regio ispettore degli scavi e dei monumenti della provincia di Trapani”.
Il trittico è stato il pezzo meglio pagato: £ 10.000, contro le 40.000 di tutta la collezione.
Poco rappresentato nella raccolta passata al Museo Pepoli è l'argento, forse perché la maggior parte degli oggetti è stata trattenuta dagli eredi per il valore del metallo; nel Museo sono conservate tre carteglorie decorate con conchiglie, volute e foglie, di gusto rococò (fine sec. XVIII), punzonate con il solo marchio dell'ignoto argentiere siciliano P. D., ed un ovale con l'effige sbalzata della Madonna e l'iscrizione MARIA VIRGO (sec. XX), recante il marchio Ao750, un oggetto al quale si può attribuire soltanto valore devozionale (Novara 1997).
Con cura e solerzia Francesco jr. si dedicò anche alla raccolta delle “carte” del nonno e delle sue, ordinandole in tre grandi fascicoli, ora conservati nell’archivio del Museo Pepoli: Scritture ordinate da Francesco Hernandez conte di Carrera nell'anno 1870, Miscellanea (1871), Corrispondenza e Carte relative al Regio Ispettorato di scavi e monumenti della provincia di Trapani (1880-1888).
COLLEZIONE PEPOLI
Agostino Sieri Pepoli (Trapani 1848 - 1910), appartenente ad una nobile famiglia originaria di Bologna, figura emblematica di intellettuale…, riassume i caratteri più tipici dello studioso curioso, (Famà 2004); “appassionato ed inquieto, collezionista e mecenate”, (Frammenti 1994), impegnato in vari settori, fu pure scultore, architetto, restauratore ed anche compositore.
Il conte Pepoli arriva ad Erice verso il 1870, poco più che ventenne, dopo gli studi compiuti a Palermo e a Siena, e si dedica alla ricerca di materiale archeologico.
In precedenza era solito salire ad Erice, con l’amico Giuseppe Polizzi, dilettante archeologo, per fare qualche acquisto di “cose antiche”; intorno al 1871 prende contatti per la concessione del parco dei Runzi e del castello del quale restaurerà le semidirute torri del Balio, dopo averle ricevute in concessione enfiteutica dal Comune.
La sua prima residenza ericina fu in una piccola casa tra la via Sales e la via Guarnotti, di proprietà del muratore ericino Giuseppe Simonte, uomo di fiducia del Pepoli e suo collaboratore nell’opera di restauro delle torri del Balio, dove andò ad abitare non appena ultimati i lavori di restauro.
La formazione umanistica, l’amore per la cultura, per l’antichità e l’arte lo indussero a raccogliere un numero considerevole di reperti ericini con la stessa passione che aveva spinto Antonio Cordici a raccogliere tante “anticaglie”.
Dal castello e dalla forra sottostante, chiamata volgarmente i Runzi, proviene quasi tutto il materiale rinvenuto dal Pepoli che nel 1885 così riferisce: “Sottostante il muro di cinta del mio castello che già da più anni ho pazientemente intrapreso a restaurare …, a sinistra della piccola porta che dà adito al nuovo parco dei rovi (runzi) … esisteva per molti e molti metri un ammasso di terra che … altro non era che un vasto deposito di avanzi di cucina, ricchissimo di frantumi di anfore e di patere …, composto di ceneri di carboni, ossa di animali, frammenti di vasi diversi” (Pepoli 1885, p. 28).
Lo stesso conte indica la quantità del materiale ritrovato: 3.810 anse anepigrafe ricurve; 620 rettangolari; 1.954 coni d’anfore; 800 iscrizioni anforiche, innumerevoli frammenti di patere con iscrizioni graffite.
Fa inoltre un’ampia disquisizione sui bolli e sui graffiti rinvenuti e li riproduce anche graficamente nell’opera Antichi bolli figulini e graffiti delle sacerdotesse di Venere Ericina, rinvenuti in monte San Giuliano. A proposito di quest’opera va ricordato che essa venne pubblicata in tutta fretta dal conte avendo egli saputo che il preside del Liceo Classico di Trapani, Astorre Pellegrini, alla cui attenzione aveva posto le iscrizioni, le stava per pubblicare.
“Con fine ironia e signorilità di razza” come sottolinea Nicolò Rodolico, il Pepoli dedica proprio al Pellegrini il suo saggio.
Avrebbe voluto sistemare tutto il materiale rinvenuto ad Erice, nel quartiere spagnolo, ma la proposta, avanzata al Comune della vetta, non venne approvata in quanto l’oligarchia liberal moderata nella quale il Pepoli non si era mai inserito, si oppose.
Amareggiato e deluso il conte cominciò a staccarsi lentamente da Erice, fino a trasferire a Trapani tutto il materiale archeologico da lui raccolto che poi sarebbe confluito nel Civico Museo da lui fondato. Significativa, a questo proposito, la frase del prof. Vincenzo Adragna, nel saggio A. Pepoli, mecenate ed amico di Erice: “Il mecenate tornava a Trapani, ed Erice perdeva un amico di cui tanto l’antica città avrebbe avuto forse bisogno e che tanto avrebbe voluto e potuto fare” (Adragna 1961, p. 3)
Agostino si darà successivamente ai viaggi in Italia e a all’estero; a Bologna, dopo avere acquistato il palazzo dei suoi avi lo trasformerà in una casa-museo (Sola 1997). Tra il 1886 e il 1890 la raccolta bolognese, oltre ad opere d’arte, comprendeva oggetti di ogni tipo, tappeti turchi, divani, velluti, ventagli ed anche un intero coro ligneo di chiesa.
Collezionare opere d’arte per i Pepoli era una passione di famiglia. Il padre di Agostino, Riccardo e lo zio Michele erano dei collezionisti. Grande influenza forse avevano suscitato sui due fratelli le amicizie con nobili collezionisti di Palermo, dove avevano studiato e si erano laureati in diritto civile e canonico, e la frequentazione a Trapani degli Hernandez con i quali erano imparentati in quanto Francesco Hernandez sr. aveva sposato Virginia Sieri Pepoli.
Riccardo, appassionato di archeologia ed in particolare di numismatica, possedeva un medagliere greco e romano, mentre Michele aveva raccolto durante il soggiorno palermitano “una ricca e pregevole collezione” eterogenea, formata da ceramiche italiane ed estere, dipinti, sculture e oggetti di ogni genere (Di Ferro 1825, p. 312).
La raccolta di maioliche e porcellane comprendeva oggetti di varia funzione: vasi, albari, piatti, contenitori di uso domestico o di farmacia, servizi di produzione italiana ed estera e numerosi pezzi siciliani; non mancavano esemplari di statuine settecentesche di porcellana, francese, inglese e di Meissen, alla cui fabbrica apparteneva anche un servizio da the.
Ad un intagliatore tedesco della prima metà del secolo XIV va riferito il busto-reliquiariodi Santa, non identificata, in legno ricoperto di tela e poi dipinto e dorato. Questo particolare e raro manufatto, verosimilmente proviene dalla chiesa di Sant’Orsola di Colonia, dove sono conservati cento busti stilisticamente ed iconograficamente analoghi (1330-1340), contenenti le reliquie di altrettante vergini, martirizzate dagli Unni dopo un pellegrinaggio da esse fatto a Roma sotto la guida di Sant’Orsola; l’opera è individuabile in una vecchia foto della casa-museo di Bologna, conservata al museo (Sola 1997).
Della collezione del conte facevano inoltre parte tanti piccoli oggetti in avorio, corallo, conchiglia, legno tela e colla, oltre che sculture e circa 300 dipinti tra cui la cosiddetta “Madonna Pepoli”, una interessante tavola raffigurante una Madonna con il Bambino ed Angeli reggicortina (1435-1450), forse eseguita in Spagna, che per esuberanza decorativa ed eleganza di linee e di colori, viene attribuita ad un maestro valenziano operante sul finire della prima metà del secolo XV.
Particolarmente significativo, sia per l’aspetto artistico che documentario, è ilbozzetto bronzeo di Giacomo Serpotta, rispondente alla tipologia barocca del monumento equestre ed eseguito per quello di Carlo II, eretto nel 1679 a Messina; è l’unica opera in bronzo dello scultore che ci sia pervenuta, ed è anche la sola documentazione rimasta del monumento messinese, distrutto durante i moti antiborbonici del 1848.
Il San Sebastiano in “pietra incarnata” (sec. XVIII), assieme ad un piccolo Crocifisso dello stesso materiale, è attribuito al trapanese Andrea Tipa, esperto, come il fratello Alberto, nella lavorazione di questa particolare pietra locale: un marmo alabastrino di colore beige-rosato con varie venature che vanno dal grigio al nero, al rosso bruno, e che imitando le lividure della pelle, veniva utilizzato per realizzare espressive statuette di Cristo in croce, deposto o flagellato (Novara 2009).
Ad un altro artista trapanese, il pittore trapanese Giacomo Lo Verde, allievo di Pietro Novelli va riferita la Santa Caterina d’Alessandria (prima metà sec. XVII).
DueNature mortesono invece di scuola napoletana e probabilmente furono eseguite dal pittore Aniello Ascione (notizie dal 1680 al 1708), allievo di Giovan Battista Ruoppolo.
Un oggetto singolare è il guscio di conchiglia con San Michele nell'atto di scacciare il demonio tipologicamente simile a quello con la Natività della collezione Hernandez (secc. XVIII-XIX): identiche sono la composizione, la tecnica del tratto nero ritracciato sull'incisione, la cornice lungo il bordo della conchiglia, ma sullo scudo del Santo ed in basso, dentro la cornice, sono incise in lingua araba le frasi corrispondenti rispettivamente al motto del santo "QUIS UT DEUS" e a "S. MICHELE ARCANGELO". Non poche perplessità riguardo l'attribuzione suscita la presenza delle due iscrizioni in arabo. Sappiamo che fin dal Medioevo nel mondo islamico fu frequente l'uso di inserire su talismani, sigilli, ciondoli e pietre di anelli, versetti coranici, speciali formule di preghiera o invocazioni (in caratteri cufici), usanza presumibilmente adottata anche da artisti cristiani nord-africani. La presenza a Trapani di questi due manufatti ci induce a due ipotesi: o che si tratti di prodotti di importazione nord-africana, acquistati dai due collezionisti trapanesi per la loro rarità, o che, se realizzati entrambi in ambito locale, il guscio con S. Michele sia stato destinato ad un arabo (se non addirittura realizzato da un arabo) convertito al Cristianesimo (Novara 1997).
Il 23 marzo 1910 il conte Agostino Pepoli muore e lascia alla città di Trapani una grande eredità: il Museo Civico da lui fondato tra il 1906-1907.
Quello di istituire un museo cittadino era stato per lui un grande sogno. Già nel 1875, dopo avere partecipato all’Esposizione storica artistica della Pinacoteca Fardelliana con 44 opere tra porcellane, vetri, medaglie, una portantina del ‘600 e quattro dipinti, aveva manifestato la volontà di donare la sua collezione, formata da 2.350 oggetti d’arte e d’antichità, al Municipio di Trapani con lo scopo di istituire un museo civico (Sola 1977).
Con questa proposta rimasta senza esito, il conte dimostrava di possedere una grande e aggiornata apertura mentale, pensando ad una destinazione pubblica della sua raccolta non limitata alla fruizione dei soli specialisti e amatori, ma estesa a tutta la cittadinanza.
Nel 1868 aveva donato al Gabinetto di Storia Naturale di Trapani, retto dal professor Cascio Cortese, amico del padre, una collezione di 14 cassette d’insetti, classificati per famiglie (Sola 1997).
Nel 1906 finalmente ottiene i locali dell’ex convento dei Carmelitani di Trapani e, dopo averli restaurati a sue spese, vi trasferisce i dipinti della Biblioteca Fardelliana, in gran parte donati da Giovan Battista Fardella alla sua città natale nel 1831, le opere delle soppresse corporazioni religiose e, nel 1909, la sua collezione privata con pezzi provenienti anche dalla casa-museo di Bologna.
Nel 1925, per la particolarità delle raccolte, il Museo, dedicato al suo fondatore, diviene nazionale.
COLLEZIONE BARBIERI
Altro collezionista ericino fu Luigi Barbieri (1774 - 1859), cavaliere dell’ordine di Francesco I, il quale “… non guardando per lungo, né a penose ricerche, né a gravi dispendi era venuto a capo di formare uno scelto museo di preziose antichità, che alla sua morte lasciava in retaggio con le sue pingui sostanze a suo nipote Barone Alberto Barbieri …” (Castronovo ms. secolo XIX). “Ella è così rara che non decora nemmeno la stessa collezione del detto antiquario signor Hernandez di Carrera” (Di Ferro 1925, p. 308). Il Castronovo descrive la raccolta comprendente anelli, vasi etruschi e greco siculi, lacrimatoi, monete greco-sicule, d’argento e d’oro e numerosi cammei che, a suo dire, sono opera di rinomati artisti greci come “Dioscalide, Equinto Alexa, Eio, Admon ed altri sommi”. Alcuni sono stati “legati egregiamente in oro dal bravo orefice palermitano Giovanni Fegarotta… Ma il gioiello dei cammei Barberiani gli è… su una sardonica orientale, tribuito a Discolide. Sostiene esso due volti, la testa di un vecchio cinta d’una fascia, un serpente ed un piccolo ariete… Ludovico Ibzelm, inviato straordinario e ministro plenipotenziario dell’Imperatore d’Austria presso la corte di Napoli estasiava alla contemplazione del testè descritto Cammeo… ed assicurava che in tutti i suoi lunghi e studiosi viaggi non gli era mai incontrato di vedere un monumento dell’arti antiche così prezioso” (Castronovo ms. secolo XIX). Sempre secondo Castronovo, nella collezione si trovavano molti quadri tra cui: un dipinto raffigurante Tobia e l’angelo Raffaele del pittore Alemanno, discepolo di Mengs; un Sant’Onofrio di Giacomo Palma il Vecchio; una Madonna con il Bambino e San Giovannino di scuola raffaellesca; un bozzetto originale di Raffaello, raffigurante la Maddalena, un Crocifisso di scuola fiamminga. Se dovessimo reputare attendibili le attribuzioni del Castronovo, dovremmo ritenere che si trattava di dipinti di notevole importanza.
Anche il Barbieri trasferì la collezione ericina a Trapani dove il Di Ferro l’ammirò e la descrisse (Di Ferro 1925); di essa non resta comunque traccia ed è probabile che venne smembrata e andò dispersa per vicende ereditarie.
E così anche questa collezione come le altre scendeva “a Trapani ed Erice perdeva” un patrimonio di inestimabile valore storico, archeologico, artistico e culturale!
MUSEO “A. CORDICI”
Nel 1876, al piano terra del palazzo comunale di Erice, venne istituito un Museo Civico, dedicato ad Antonio Cordici.
Nel 1938 fu trasferito negli angusti locali dell’ex teatro comunale, dove tuttora si trova, e nel 1975 fu risistemato (Scuderi, Colomba, Malignaggi, 1975).
In esso sono confluiti: reperti archeologici della collezione Hernandez, opere d’arte recuperate dai conventi del SS. Salvatore e del Carmine e da enti religiosi soppressi in seguito alla legge Siccardi del 1866, monete donate dalla famiglia Coppola assieme ad un presepe con statuine in alabastro (sec. XVIII).
A seguito di un furto avvenuto nel 1996 la collezione di monete e di reperti archeologici risulta oggi depauperata; rimangono comunque testimonianze di età preistorica, elima, punica, ellenistica e romana, frammenti di ceramica e di sculture, unguentari, lucerne, un cippo funerario.
Va ricordato che anche i fratelli Coppola, patrizi ericini, il cui esponente più noto fu Giuseppe (1821-1902), nel loro palazzo raccolsero numeroso materiale archeologico, tra cui monete provenienti dalla collezione Cordici e un fusto di colonnetta marmorea con iscrizione probabilmente araba già citata dallo stesso Cordici (Castronovo ms. secolo XIX).
Della collezione Coppola faceva parte anche il manoscritto La Historia della città di Monte Erice di Antonio Cordici, ora nella Biblioteca Civica, annessa al museo. ''
Al termine della interessante esposizione è seguito un breve dibattito cui hanno partecipato molti dei presenti che hanno posto numerosi quesiti e chiesto precisazioni. Ad essi la relatrice ha fornito ulteriori chiarimenti e delucidazioni.
Chiuso il dibattito, a ricordo della serata la Presidentessa, Sig.ra Aloma Anselmo, ha offerto all'ospite un omaggio floreale mentre il Prof. Salvatore Valenti, a nome dell'Associazione, le ha offerto il testo '' Istoria di Trapani '' del Pugnatore pubblicato a cura del Prof. Salvatore Costanza. La Prof.ssa Novara ha ricambiato con una sua pubblicazione relativa all'argomento della serata da porre nella Biblioteca dell'Associazione.
A chiusura della serata il Presidente ha ricordato ai Soci presenti, invitandoli ad intervenire, che venerdì 8 marzo 2013 alle ore 18.00 nei locali del Seminario Vescovile di Trapani in ricorrenza del 10° anniversario della scomparsa del Prof. Li Muli, il Prof. Gaetano Bongiovanni terrà una conferenza sullo scultore trapanese.
L'incontro si è concluso con l'arrivederci a sabato 9 marzo 2013 alle ore 18.00 nei locali dell'Associazione per il prossimo incontro in calendario.