2015 - 01 - 17: Sig. Marco Scalabrino - '' Candida scorre la luce '' - Testo poetico di Onofrio Giovenco

Sabato 17 gennaio 2015 alle ore 18.20 nella sala delle riunioni dell'Associazione per la Tutela delle Tradizioni Popolari del Trapanese sita in Trapani via Vespri 32 con la partecipazione di un numeroso gruppo di soci, di simpatizzanti ed ospiti si è tenuto il tradizionale incontro settimanale previsto dal programma del XXIX Corso di cultura per l'anno 2015.
Gli ospiti sono stati accolti dal Presidente e dai presenti con cordialità ed evento della serata è stata la presentazione della silloge del Dott. Onofrio Giovenco '' Candida scorre la luce '' che è stata prolusa dal Sig. Marco Scalabrino entrambi noti ai soci per aver più volte partecipato alle attività dell'Associazione.

I lavori sono stati aperti dal Prof. Salvatore Valenti con la presentazione del relatore, Signor Marco Scalabrino, e dell'autore del testo poetico Dott. Onofrio Giovenco. 
Il Sig. Scalabrino, trapanese di nascita e noto studioso del dialetto siciliano e della relativa poesia, ha tradotto in siciliano ed italiano i lavori di molti autori stranieri contemporanei, è autore di molte pubblicazioni ed ha collaborato con noti periodici culturali cartacei ed in rete nazionali ed interbazionali.
Il Dott. Giovenco, anche lui trapanese di nascita, ha in gioventù ffettuato studi classici, ha viaggiato e soggiornato in varie città d'arte italiane ed attualmente vive e lavora a Trapani dove è impegnato nelle attività dell'azienda agraria di famiglia. Ciò non gli ha impedito però di tralasciare la sua antica vocazione poetica che si è concretizzata nella pubblicazione di varie opere letterarie ( vedi '' A Fauci n'mezzu u mari '' - giugno 2014 ) e la silloge argomento della serata '' Candida scorre la luce ''.

Conclusa la parte iniziale il Presidente ha quindi ceduto la parola al Sig. Scalabrino ed al Dott. Giovenco.

Si riporta di seguito ed integralmente quanto detto dall'oratore avendo egli cortesemte reso disponibile il testo della sua relazione nel corso della quale, in linea con la sua esposizione, sono state declamate alcune delle più significative poesie della raccolta da parte sia della Sig.ra Mariella Mormino ( moglie dell'autore ) sia dal Dott. Giovenco stesso.

'' Buona sera a tutti!

Doverosi, sentiti ringraziamenti a Onofrio Giovenco e a Salvatore Valenti.

Candida scorre la luce, l’opera di Onofrio Giovenco della quale ci occuperemo questo pomeriggio, possiamo ben dire che è un lavoro fresco. Doppiamente fresco: perché cronologicamente l’ultimo lavoro del nostro autore; perché edito il 21 marzo 2014, il primo giorno di primavera del 2014. Un fausto viatico, dunque, ci spiana la strada; un auspicio nondimeno che, di qui a breve, andremo – spero – a suffragare.

 Onofrio Giovenco, la sua famiglia, sono figure abbastanza note in città. Il nonno, l’avvocato Onofrio Giovenco, è stato parlamentare regionale all’A.R.S. (Assemblea Regionale Siciliana) nell’immediato secondo dopoguerra; la madre, Filippa Fazio, docente e pittrice, è l’autrice del dipinto la cui immagine è riprodotta in copertina dell’odierno volume: Promontorio sull’Egeo con i ruderi di un tempio greco.
Egli stesso (pur gestendo l’azienda agraria di famiglia – nella quale alligna quel vigneto sulle colline che, appureremo, è stato oggetto della sua attenzione lirica) non ha mai tralasciato gli studi né abbandonato la sua inclinazione poetica.

Posta in archivio questa breve digressione, prima di inoltrarci nella nostra schematica lettura, è d’uopo rilevare che Onofrio Giovenco ha già dato alle stampe, negli anni passati, tre raccolte: due di versi in lingua italiana: Fra cielo e terra e Lighea, e un tomo di proverbi e poesie in dialetto trapanese: A fauci ‘n mezzu ‘u mari, che mi risulta sia stato presentato con successo giusto in questa sede.
L’auspicio, pertanto, è di ripetere quell’esito favorevole, malgrado diversa, chiaramente, è la materia della quale ci apprestiamo ad argomentare.

Con prefazione e note a corredo dei testi di Roberto Calìa, Direttore della Biblioteca Comunale di Alcamo, il volume è affettuosamente dedicato alla figlia Maria Teresa.

Il titolo, Candida scorre la luce, è una citazione colta.
Esso, infatti, è mutuato da un verso de l’Odissea, Libro VI, allorquando il sommo Omero descrive l’Olimpo come “serena dimora dei Numi, ove candida scorre la luce”.
L’autore però, nella sua pindarica concezione, ne estende il senso oltre l’eccelsa collocazione nella mitica residenza degli Dei e vi fa metaforicamente ricomprendere quello del “fluire dei versi che illuminano la vita umana e la rendono più amena”, così da poterne affrontare meglio “le inevitabili asprezze”.

Settantuno testi nel complesso, tutti impressi – cosa inconsueta – in corsivo, sono suddivisi in sei sezioni.
In massima parte consistono di versi sciolti, in qualche modo rimati, talora sulla falsariga del sonetto; ma in verità l’endecasillabo (che delle forme classiche: il sonetto, appunto, ma anche l’ottava siciliana, lo strambotto, la sestina, eccetera è il verso per antonomasia) non sempre vi ricorre con accuratezza. In argomento, è da sottolineare che la prassi seguita dall’autore è quella di adottare di volta in volta il metro più confacente alla tematica trattata.

Procederemo, per le nostre considerazioni, prendendo spunto dai medesimi testi nonché dai commenti dello stesso autore e di Roberto Calìa che li corredano, riportandone (fra virgolette), al fine di documentare le nostre argomentazioni, taluni acconci stralci.

Gli elementi che caratterizzano la presente raccolta sono suddivisi in sei ampie sezioni: La terra dei miti; Aspetti della natura; Rime d’amore; Problemi del nostro tempo; Esperienze di vita e riflessioni; Rime dialettali.
Ciascuna delle sezioni è preceduta da una introduzione dello stesso autore che ne descrive per grandi linee le tematiche, mentre ogni singola poesia è commentata da un sobrio studio di Roberto Calìa.

Il verseggiare semplice e incisivo di Onofrio Giovenco – assevera perspicacemente Calìa – rivela i suoi autentici sentimenti che culminano nella “esaltazione romantica dell’amore, quale anelito per la vita terrena”, risponde “a un proprio ritmo interiore”, assurge a reale “capacità evocativa, con ramificazioni (quanto ai contenuti) che si protendono più verso il mondo delle memorie che verso quello delle speranze”.

Nelle dodici poesie che fanno parte della prima sezione, La terra dei miti, Onofrio Giovenco ha inteso celebrare l’incanto delle antiche e magiche atmosfere dei luoghi del mito che connotano mirabilmente il nostro territorio; quel mito, che aleggia sulla Sicilia e sulla civiltà del Mediterraneo, testimoniato dalle molte vestigia, dai monumenti di incalcolabile valore storico e artistico.

I titoli dei testi ne sono già lampanti assaggi: Drepanum, Cossyra, Venus citerèa e così via. In coerenza con quanto sopra detto, in questa sezione d’esordio, egli ha appunto privilegiato un linguaggio forbito e aulico, quasi neoclassico, che meglio (ha ritenuto) potesse rendere quegli irripetibili contesti.

Leggiamo: alla pagina 22 Drepanum e alla pagina 28 Erice secondo Nino Fici Li Bassi ( declamate dalla Sign. ra Mormino ); alla pagina 37 Carme a Lighèa declamata dall'autore.

E veniamo adesso ad illustrarne, benché concisamente, taluni testi.

In Drepanum, Onofrio Giovenco decanta le bellezze naturali della sua e della nostra città; rievoca il passaggio dell’eroe troiano Enea, che qui giunse sospinto dalle onde, il cui padre, Anchise, vi trovò la morte e in onore del quale furono proclamati i rinomati ludi che si svolsero sulla piana di Pizzolungo. Segnala inoltre, là nell’alta rupe, la presenza della dea Venere, che col suo sorriso / volle far di questa terra un paradiso.

Quanto alla romana Cossyra, termine che significa “la piccola” e designa l’odierna nostra Pantelleria, egli ne conosce e ama la lava nera pietrificata, il cappero, lo zibibbo, quell’ambrosia che inebriò gli dei, e osserva che sul volto dei suoi uomini come su ossidiana / appare scolpita la quotidiana fatica.

Alle pagine 28 e 29, Giovenco ricorda Nino Fici Li Bassi (autore – lamenta egli – che è stato colpevolmente dimenticato), il quale magnificò la sua amatissima Erice, di stelle inghirlandata / di quell’etra mistica incantata, tanto che una delle sue poesie, Ericyna Venus, è stata trascritta ed è visibile su una lapide in una delle torri del balio ericino.

Alcamo, città dalla quale per lato paterno egli discende e alla quale è tutt’ora legato, è culla d’artisti e di poeti; egli la osanna nel testo, Ad Alcamo, anche a motivo del chiarissimo nettare / essenza e succo della terra.  

Daccapo, alla pagina 43, nel testo Venus citerèa, ritorna Venere, dea dell’Amore e della Fecondità. Vi trovano poi conveniente spazio: La [girgentana] valle di templi (chissà, forse per un grazioso riguardo al nostro presidente Salvatore Valenti); Il satiro danzante, dal sorriso ironico e beffardo, attribuibile allo scultore greco Prassitele e oggi custodito a Mazara del Vallo; l’Omaggio a Calliope, la musa che presiede alla poesia; e un Carme a Lighèa, la sirena (Lighèa) che ispirò una novella a Tomasi di Lampedusa, universalmente noto per Il Gattopardo.

Nel testo Marettimo, alla pagina 26, È arduo per narrarti trovare i giusti versi, si affaccia una figura retorica frequente nella letteratura: l’anastrofe, dal greco anastrépho, invertire, andamento sintattico per il quale si inverte l’ordine abituale delle parole.

Giovenco la reitera, nel medesimo testo, in: come dal soave canto delle siren rapito; e (spesso per esigenza di rima) nel testo Alba sul golfo di Castellammare, in: di gabbiani s’alza candido uno stormo; nel testo Venus citerèa, in: forte si frangon sul lido l’onde; nel testo Ad Atena, suprema guida di Ulisse, in: tu sei della sapienza il fuoco.     

Si diceva poc’anzi del linguaggio forbito, aulico, quasi neoclassico. Ne sono campioni i lemmi, le locuzioni, le voci tronche di cui egli si avvale: procella, biondeggian, per l’alma tua, s’inonda di beltà, in cerca del piacer, fra i mille perigli, eccetera.            

Le liriche contemplate nella seconda sezione, Aspetti della natura, risalenti alla produzione giovanile (anni, egli ama ricordare, trascorsi nella solitudine dei campi assolati, vicino ai pastori e ai contadini della sua azienda agraria) sono undici. Il linguaggio, qui, è meno sfarzoso di riecheggiamenti classici, più fresco e spontaneo.

Vi emergono, in Risveglio primaverile, l’amore per la natura: se il mite april i verdi prati infiora, e la fede religiosa: prodigio / del Gran Creatore inconfutabil prova; in Autunno ericino, la liricità: qualche viandante s’affretta a rincasare / richiude l’uscio e si siede al focolare; in L’arcobaleno, le meditazioni sulla vita: ora quale … strana e magica alternanza / che rende più bella l’esistenza; ora, in La maratona, paragonata giusto a una sorta di maratona; altrove, in Ricordi di vita agreste, cagione di rimpianto della semplicità / della vita agreste, ormai per sempre perduta.

Acclariamo un palese debito nei confronti di Francesco Petrarca, nel testo Bagno Rigeneratore: O verdi e fresche acque, e una ben più diffusa eco leopardiana: in O cara luna, avvolta dalle nuvole, passo che rimanda alla silenziosa luna in ciel del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia; e viepiù nei versi: nuoto sino all’infinto orizzonte … là dove il mar al cielo si confonde. Eco leopardiana che, peraltro, egli non ha remore a confessare in Fra cielo e terra, alla pagina 99: come il Leopardi mi sento d’affermare / che il naufragar m’è dolce in questo mare.

Il poeta, si è detto, possiede un vigneto nelle colline che circondano Trapani. Leggiamo, in proposito, il testo Il mio esercito, alla pagina 52 ( letta dalla Sig.ra Mormino )

Nella terza sezione, Rime d’amore, l’autore esalta tutte le forme dell’amore, nel quale egli ravvisa la forza motrice dell’universo.

“In queste quindici poesie – asserisce Onofrio Giovenco – non mi riferisco soltanto all’amore sensuale, quello visto come attrazione fra i sessi, ma [anche all’amore] inteso come affetto paterno, filiale o come tenero ricordo di quei nostri cari che ci hanno lasciato.”

Titoli sintomatici ne sono: Mia nel corpo e nell’anima, Innamorarsi, I tuoi occhi; e ancora: Amore senza età (l’amore quello grande, quello vero / sboccia improvviso senza età), Il tuo sorriso (il sorriso di una giovane donna che, come per miracolo, illumina la vita), e Il mio Odi et amo, di catulliana memoria, perenne turbinio d’emozioni che travolge l’esistenza.

Quanto all’amore familiare e paterno: ne I fantasmi della notte, egli vagheggia che i propri genitori, ormai scomparsi da tempo, “continuino ad assisterlo con lo stesso immenso amore che gli donarono nei loro giorni terreni”; in Tu nell’alba della mia vita, ci consegna un tenero ricordo della madre, il cui amore, come il sole fuga le tenebre, riscalda e dona vita; e, in Ad una quindicenne, allestisce un’ode alla figlia allora adolescente.   

E infine una forma d’amore fra le più alte che un uomo può concepire e responsabilmente decidere di dare: “il totale e incondizionato donarsi al prossimo”; alla pagina 75, nel testo La donazione, si tratteggia il commovente incontro fra il padre di un giovane perito in un tragico incidente e un uomo, oggi rivivi in questo tuo fratello, salvato grazie all’espianto degli organi che ne è seguito. Quel padre, abbracciando lo sconosciuto, è come – avverte Giovenco – se stringesse al petto il proprio figlio.

Leggiamo: alla pagina 69 Tu nell’alba della mia vita; alla pagina 75 La donazione.

Nella quarta sezione, Problemi del nostro tempo, trovano posto sette composizioni in prosa poetica, nelle quali vengono affrontate le principali problematiche che affliggono l’umanità dei nostri giorni: la solitudine esistenziale, la crisi dei valori e i falsi miti nei quali di sovente l’uomo si rifugia; le mille guerre sparse per il mondo.

E inoltre: l’emigrazione clandestina, la diaspora dai paesi del continente africano (dramma fra i drammi del nostro tempo: fatiscenti carrette / trasportano … verso le nostre coste / materiale umano”); il sacrificio, in Vittima innocente di un vile attentato, di un giovane carabiniere ucciso dalla criminalità, testo nel quale, in una pregevole icona, l’autore disloca dal soggetto animato, l’uomo, all’oggetto inanimato, il sangue, la qualità dell’onestà: hai versato il tuo sangue onesto; e non ultima La realtà virtuale la quale, ancorché non esplicitamente osteggiata, viene comunque accolta di malanimo perché dicono è il progresso / che non può e non deve arrestarsi.  

La quinta sezione ha per titolo Esperienze di vita e riflessioni.

Le dieci poesie che vi sono incluse raccontano di luoghi, eventi o sensazioni (legati alle problematiche del vissuto quotidiano) pregni di grande forza evocativa.

La visione de Il giardino dei gelsomini, ad esempio, luogo dall’abbagliante splendore, nel quale egli allegoricamente colloca il paradiso cristiano; quella dell’albero di Natale: richiami di campane e canzoni / con nenie natalizie e dolci suoni / pian piano mi invitano a pregare; o quell’altra della casa nella quale l’autore vive (egli, infatti, pur essendo nato nel centro storico di Trapani, si trasferì presto con la famiglia in via Colonnello Romey, dove tuttora studia e lavora): O vecchia casa dalle spesse mura / calda d’inverno e fresca alla calura … fedele testimone / di tutti gli eventi … della vita mia.

Alla pagina 102, a partire dalla constatazione della caducità della vita, la quale altro non è che fugace passaggio, il poeta traccia, ora [che] sul mio colle il sole declina, / scende la sera e la notte è vicina, un nostalgico, ma tutto sommato positivo, bilancio della sua vita.

Leggiamo: alla pagina 91 Nella piazzetta di un piccolo paese ( declamata dalla Sign.ra Mormino ).

E infine le Rime dialettali.

Questa sesta sezione racchiude sedici poesie dialettali, seguite dalla traduzione in italiano. Malgrado la remota militanza nelle file del dialetto (se già nel 1981 egli era associato al Centro d’Arte e Poesia Antonino Bulla di Catania), “ho avuto – ci confida Giovenco – delle forti perplessità sull’opportunità di inserirvi delle rime dialettali. Alla fine ho optato per il sì, confortato dal parere di amici ed esperti e dalla recente iniziativa legislativa del Ministero dell’Istruzione diretta allo studio delle lingue locali nella Scuola.”

Col testo ‘A fauci mmenzu ‘u mari, chiaramente indirizzato alla nostra città, si apre questa sesta e ultima frazione. Da esso, e dagli altri testi in essa ricompresi, trarremo il destro per esporre, succintamente, oltre che taluni esiti, anche talune peculiarità lessicali, sintattiche e grammaticali del nostro dialetto.

Na sta fauci mmenzu ‘u mari / ci sta tuttu lu pinsari /
ri viddrani e salinari / piscatura e marinari
, /

chi li sciarri o lu diverbiu / risolvìan c’un proverbiu /
ri l’antichi tramannatu / a memoria du passatu.

 Soprassediamo sulla sedicente sicilianità del termine risolvìan e rileviamo, piuttosto, che questi otto, brevi versi iniziali sono prodighi di spunti. Scontato che in questa circostanza ci asterremo dal proporre la versione in lingua degli stralci dei testi dei quali ci avvarremo, la prima fondamentale osservazione concerne il criterio di scrittura adottato da Onofrio Giovenco.

Sappiamo che i criteri per scrivere nel siciliano sono due: quello etimologico e quello fonografico. L’etimologico attiene all’origine, alla derivazione, alla ricostruzione dell’evoluzione delle parole e affonda le radici nella nostra storia letteraria, a partire dalla Scuola poetica siciliana; l’altro, il fonografico, è la tendenza a riprodurre graficamente i suoni d’una lingua, tendenza che fiorì in piena stagione veristica, grossomodo fra il 1890 e il 1910, quasi a voler dare consistenza all’affermazione di Giovanni Verga, per il quale l’opera d’arte doveva sembrare essersi fatta da sé. L’opzione di Onofrio Giovenco è nettamente a favore del secondo: il fonografico.

Rimarcato che proverbiu / ri l’antichi tramannatu / a memoria du passatu restituisce le radici longeve del nostro dialetto e lu pinsari / ri viddrani e salinari la saggezza, la filosofia popolare della nostra gente, Onofrio Giovenco scrive salinari e piscatura, mettendo in pratica entrambe le forme in uso nel siciliano per il plurale dei sostantivi maschili. Il plurale dei nomi, sia maschili che femminili, termina di regola in “i”.

“Un certo numero di nomi maschili – certifica Salvatore Camilleri – terminanti al singolare in “u” fanno il plurale in “a” alla latina; sono nomi che di solito si presentano in coppia o al plurale: jirita, vrazza, corna, ossa, vudedda, linzola, labbra, chiova, trona, eccetera.

Più copiosi i plurali in “a” dei nomi maschili terminanti al singolare in “aru” (latino arius) significanti, in gran misura, mestieri e professioni”, fra i più comuni dei quali: ciurara, furnara, libbrara, nutara, putiara, ruluggiara, scarpara, tabbaccara, vitrara.

In Giovenco rinveniamo: libbra, varcuna, cantuna, pitruna, mulina a ventu, pastura, mula, cunigghia, crastuna; sebbene alla pagina 130 vi affiori cu armali e cu l’armala, con evidente irrisolutezza nel medesimo testo a distanza di pochi versi.   

Viddrani scrive altresì il Nostro, impiegando, come del resto nel prosieguo: asineddru, Bammibeddru, Egadi beddri, purtati a spaddra, capiddri, cipuddra, furneddra, il segno “ddr”. Derivante dal latino (capillus, caballus, nullus e così via), talmente fuso nella pronuncia da essere considerato un segno a sé stante, da non confondere con la doppia “d” il cui suono è dentale mentre quello di “dd”è cacuminale, esso rappresenta il suono più caratteristico della lingua siciliana.

Da cinque secoli gli studiosi cercano di rappresentare graficamente questa pronuncia del siciliano senza trovare una soluzione accettabile. Si sono avvicendati nel tempo i tentativi di sostituire il gruppo “dd”, senza alcun distinguo ortografico: coddu, faidda, stidda, cuteddu, peddi, vavareddi, codda, più accreditato degli altri, con “ddh” o “ddr” e con i due puntini (a mo’ della dieresi) in cima o alla base di “dd”; ma, invero, con scarsa fortuna.

Con la voce sciarri entriamo in un ambito assai intrigante: quello della etimologia delle parole del siciliano. Sciarra è vocabolo di probabile provenienza araba: sciarr o scharr = guerra, lite, alterco.

Lucio Apuleio, scrittore siciliano del II secolo d.C., sostenne che i Siciliani parlavano tre lingue: il Greco, il Punico e il Latino. Ma da allora, e fino al XIX secolo, ne sono passati di “ospiti”!

Atteso che il dialetto siciliano è notoriamente sorretto da lemmi di origine greca, latina, araba eccetera (che ne comprovano la dovizia, la versatilità, la bellezza) rievochiamone le frequentazioni, servendoci di alcuni stringatissimi esempi.

Dal greco, VIII secolo a.C.: vastasu, babbiari, lippu, bucali, carusu, grasta, bummulu, naca, cannata, taddarita, ammatula …; dal latino, III secolo a.C.: muscaloru, grasciu, oggiallannu, antura, pinnulara, strippa … ; dall’Arabo, 827 d.C.: zibibbu, cafisu, zuccu, tabbutu, cassata, zotta, gebbia, babbaluci, guggiulena, funnacu, giarra, margiu, zagara, burnìa, zimmili ...; dalla radice francese, in conseguenza della dominazione normanna e angioina, tra il 1060 e il 1282: accia, ammucciuni, vucciria, custureri, truscia, racina, giugnettu, accattari …; dallo spagnolo, che praticammo quasi ininterrottamente per cinque secoli dal 1412 al 1860: lastima, nzirtari, scupetta, sgarrari, accanzari, truppicari, muschitta, sarciri, picata, ammurrari ...; dal tedesco, tra il 1720 e il 1734 quando la Sicilia venne assegnata dagli Spagnoli all’impero austriaco: laparderi, arrancari, sparagnari, guastedda, nixi.

Questi, e tra la miriade che potremmo ancora menzionarne: quartara, trappitu, ghiotta, cìcara, rastu, atturrari, truzzari, marredda, accuffulatu, spiari, nicheja, trispiti, cannarozzu, nsalanutu, scaffi, ciaramiti, mazzacani, muccaturi, ammattiri, truscia, bardascia, scuzzetta, eccetera eccetera, sono lemmi che tuttora noi adoperiamo con naturalezza, con proprietà di significato, con i quali assolviamo egregiamente l’esigenza sociale della comunicazione familiare e amicale, e che (parallelamente all’italiano) compiutamente si attagliano all’odierno, nostro, quotidiano conversare.

Orbene, quantunque guizzanti di vitalità, di attualità, essi sono carichi di secoli, quando addirittura non di millenni; ma di ciò forse non abbiamo coscienza perché, presumibilmente, mai ci siamo interrogati in tal senso.

Il Siciliano infatti, le cui radici (diciamo così ufficiali) affondano nel lontano 424 a.C. con la virtuale costituzione ad opera di Ermocrate della nazione siciliana, “Noi non siamo né Joni né Dori, ma Siculi”, è un organismo vivo, palpitante, un organismo capace di resistere alle influenze delle disparate altre culture con le quali si è “incontrato”, capace di acquisire da ognuna di esse quanto di volta in volta più utile al suo arricchimento e di stratificare tali conquiste sulle proprie, primigenie fondamenta.

E così in età successive si sono avvicendati il greco-siculo, il latino-siculo, l’arabo-siculo, il franco-siculo, l’ispano-siculo … ma in definitiva sempre una lingua, una sola: il Siciliano.

Leggiamo: alla pagina 117 ’A mattanza e alla pagina 133 Funtanarussa ( recitata da Giovenco ).

Sempri ‘a sua iddra avi a diri, sempre la sua lei deve dire.

La perifrastica costituisce una aggiuntiva prerogativa della lingua siciliana legata al latino. Nel siciliano, però, la perifrastica non è passiva come nel latino e viene resa mutando l’ausiliare essere in avere. Il latino mihi est faciendum, difatti, in italiano si rende con le perifrasi io debbo fare, io ho da fare, mentre il siciliano lo rende con aju a fari.

Altri esempi in Giovenco: havi a mangiari, t’haju a diri, m’haju a stariIò scialài, iò mi sentu, iò vi ricordu, iò ci rissi, iò pigghiu l’acqua.

Iu,, èu, , ièu, , sono fra le tipologie censite in Sicilia per rendere il pronome personale “io” e ognuna di esse Giorgio Piccitto, Giovanni Tropea, Salvatore C. Trovato, e il loro monumentale Vocabolario Siciliano, hanno attribuito a un determinato distretto geografico.

Giovenco opta decisamente per la formulazione trapanese .

Dunni vai vai; aria sana sana; strata lesta lesta.  

Specificità ulteriore del dialetto siciliano, degna di essere messa in luce, è il raddoppiamento e/o la ripetizione dei termini: janca janca, peri peri, ‘gnuni ‘gnuni. “ Il raddoppiamento o la ripetizione di un avverbio (ora ora, rantu rantu) o di un aggettivo (nudu nudu, sulu sulu) – dichiara Luigi Sorrento in Nuove Note di Sintassi Siciliana del 1920 – comporta di fatto due tipi di superlativo: ora ora è più forte di ora e significa nel momento, nell’istante in cui si parla, nudu nudu è tutto nudo, assolutamente nudo.

I casi di ripetizione di sostantivo (casi casi, strati strati) e di verbo (cui veni veni, unni vaju vaju) sono speciali del siciliano. Strati strati indica un’idea generale d’estensione nello spazio, un’idea di movimento in un luogo indeterminato, non precisato, tanto che non può questa espressione essere seguita da una specificazione, come strati strati di Palermo. L’idea di “estensione” viene espressa dalla ripetizione del sostantivo, così originando un caso particolare di complemento di luogo mediante il raddoppiamento di una parola.

La ripetizione del verbo si ha con la pura e semplice forma del pronome relativo seguita dal verbo raddoppiato. Cui veni veni intende chiunque venga, tutti quelli che vengono: il raddoppiamento del verbo, quindi, rafforza un’idea nel senso che la estende dal meno al più, la ingrandisce al massimo grado, anzi indefinitamente”.

Li statui su’ di lignu / e di l’arti trapanisi sunnu un signu.

L’apocope (la caduta di una sillaba o di una vocale alla fine della parola) e l’aferesi (la caduta di una sillaba o di una vocale al principio della parola), ‘un sacciu, ‘un sentu, ‘n putiri, sono di casa nella scrittura del siciliano. Lo scopo evidente è quello di imprimere scorrevolezza alla lettura.

Addubbati cu cira e tanti ciuri.

Derivante dal gruppo “fl” latino, flatus, flos, flumen (ciatu, ciuri, ciumi in siciliano), il nostro segno “c” (con pronuncia strisciante) in tempi andati è stato graficamente reso con la “x”, “xh”, “ç” o con “sc”.

“In una adunanza di dotti cultori di lettere siciliane tenutasi a Palermo [Corrado Avolio, in Introduzione allo studio del dialetto siciliano del 1882] si stabilì di trascriverlo con “c”.

Giovenco allinea: ciauru, celu, ciacculi, eccetera.

 Di Trapani o Munti, da Trapani al Monte.

Il siciliano difetta del segnacaso da; “vengo da Palermo – riscontra Lionardo Vigo, in Canti Popolari Siciliani del 1857 – noi diciamo vegnu di Palermu, il segno del genitivo, di, vale per l’ablativo”: di lu mari (dal mare), di na vita (da una vita), eccetera.

E andiamo, con sollecitudine, a chiudere segnalando: alla pagina 138, un evidente refuso in haiu n’amicu, giacché l’articolo indeterminativo “un”, come del resto per l’italiano, non va apostrofato; le voci: emergi alla pagina 118, avvoltu alla pagina 127, la tronca ciel alla pagina 120, che hanno ben poco a che spartire col Siciliano e con un ammaestramento che il Nostro ci gira: la poesia – è bene che noi se ne acquisisca consapevolezza – non ha unicamente valore letterario ma anche quello di riflessione e di denuncia. ''

A conclusione della relazione del Sig. Scalabrino, l'autore della silloge ha concluso con la lettura della composizione '' A processione dei Misteri '' tratta da un'altra sua raccolta di poesie.

E' da sottolineare che la lettura e l'interpretazione dei testi fatta dalla Sig.ra Mormino ha riscosso gli applausi dei presenti  che sono stati estesi anche all'autore per i sentimenti in essi espressi ed anche per l'emozioni che hanno saputo destare nell'animo degli ascoltatori.

La parola è andata quindi al Dott. Giovenco che ha ringraziato il Presidente e l'Associazione per la nuova possibilità che gli è stata concessa di poter presentare la sua silloge nei suoi locali ed anche il relatore per la precisa ed accurata analisi del suo lavoro ed i presenti che interessati e talvolta emozionati hanno ascoltato i suoi versi. Ha inoltre voluto donare alla Biblioteca del sodalizio una copia dedicata ed autografata della sua pubblicazione.
( N.B.: la poesia '' Drepanum '' che apre la silloge presentata può essere letta nella Sezione L'angolo della cultura del sito.

E' seguito quindi un breve dibattito che ha visto la partecipazione di molti dei presenti e ad ai quali gli ospiti della serata hanno fornito altre precisazioni e chiarimenti. 

Al termine ed a ricordo della serata il presidente a nome dell'Associazione ha offerto al Sig. Scalabrino una copia del libro '' Storia di Trapani '' di Salvatore Costanza.

Ha infine ricordato ai partecipanti all'escursione a Cerda che la partenza prevista la mattina di domenica 18 gennaio sarebbe avvenuta alle ore 07.30 da Piazza Vittorio e che l'evento fissato per giovedì 29 gennaio 2015 alla '' Mannara '' per motivi di opportunità è stato spostato a domenica 1° febbraio 2015 nello stesso locale.

Ha quindi concluso con l'arrivederci a sabato 24 gnnaio 2015 alle ore 18.00 nei locali dell'Associazione per il successivo incontro previsto dal calendario delle attività per l'anno 2015.

 

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