2015 - 02 - 14: Prof. Michele Russo - Carnevale: Oggi, ieri, avanti ieri














Sabato 14 febbraio 2015 alle ore 18.30 nella sala delle riunioni - biblioteca dell'Associazione per la Tutela delle Tradizioni Popolari del Trapanese sita in Trapani via Vespri 32 con la partecipazione di un gruppo molto numeroso di soci si è tenuto il settimanale incontro previsto dal programma del XXIX Corso di cultura per l'anno 2015.


Il relatore della serata, Prof. Miche Russo, ben noto ai soci e socio egli stesso, scrittore, ricercatore attento e cultore delle tradizioni del trapanese, ha negli ultimi anni più volte partecipato alle attività culturali dell'Associazione trattando argomenti e temi legati  al passato del territorio ma sempre legati alla persona umana sotto i diversi aspetti.



















Il Prof. Valenti in apertura dei lavori e prima di cedere la parola al relatore ha ricordato ai soci alcuni appuntamenti:

- martedì 17 febbraio p.v., ultimo giorno del Carnevale, a partire delle ore 19.00 i locali dell'Associazione saranno aperti ed a disposizione dei soci per passare insieme ed in allegria la serata. Pertanto, chi volesse partecipare dovrebbe dare la propria adesione per una adeguata organizzazione dell'evento
- mercoledì 18 febbraio p.v. alle ore 17.30 essendo prevista l'Assemblea ordinaria, tutti i soci sono invitati a partecipare
- mercoledì 25 febbraio p.v. alle ore 17.00, come del resto previsto dal programma delle attività dell'Associazione per il mese di febbraio 2015, presso la Biblioteca Fardelliana si terrà la conferenza dal titolo '' Le opere inedite di Tito Marrone donate al Comune di Trapani ''. I soci sono pertanto pregati di intervenire numerosi all'evento.

Si riporta di seguito quanto riferito dal Prof. Michele Russo nel corso della sua relazione e di cui gentilmente ha reso disponibile il testo e le illustrqazioni in esso inserite.

'' Carnevale: oggi, ieri, avanti ieri

Parecchi studiosi si sono sbizzarriti a cercare il suo etimo, facendolo, alla fine derivare da “carni vale”, espressione con cui nel Medioevo si indicava la prescrizione ecclesiastica di astenersi dal mangiare carne a partire dal primo giorno di Quaresima, espressione, però, che ci riporta a sua volta sia a “carna aval”, addio alla carne perché anticamente si mangiava molta carne sia a “carnes levare” togliere le carni con riferimento alle  orge che si tenevano nei banchetti; altri, invece, lo fanno derivare da “carni levamen” cioè godimento della carne con riferimento alla libertà concessa agli istinti naturali dei piaceri sensuali della carne.

Indipendentemente dalla sua etimologia, caratterizzato da colori e schiamazzi, il Carnevale ha e ha avuto sempre un suo fascino ed è considerato la festa dell’allegria per eccellenza.               

Ma quanto diverso nello scorrere del tempo!

Adesso, sotto l’influenza dell’aria del continente e stimolati dalle immagini di variopinte ed assordanti sfilate carnascialesche che in questi anni la televisione ci ha propinato, questa festa, in vari paesi e città, ha avuto un nuovo risveglio: associazioni, gruppi, enti culturali preparano e fanno sfilare “carri” bellissimi in sé, apprezzabili per il lavoro e l’entusiasmo profuso, coinvolgenti per le appropriate coreografie preparate con la partecipazione volontaria e gratuita di giovani e non più giovani.                                                         

 Però, è un Carnevale privo dell’antico e profondo significato. Quello che solo caratterizza la festa è apparire per attrarre. Lo scherzo “vale” ed il commercio che vi è connesso raggiunge il suo apice. Poi, come ogni anno, rimangono soltanto piazze e strade da ripulire.

Per i bambini è uno sfoggio di costosi costumi da indossare solo per un giorno, per la foto ricordo o per le  fredde sfilate variopinte nelle scuole d’infanzia e in quelle primarie o nei concorsi di paese.

Per i grandi è l’occasione per cercare di liberare la fantasia e di catturare un po’ di felicità partecipando a balli in maschera o recandosi atrascorrere una delle tante serate di fine  settimana in una discoteca, con la sola variante di portare in testa un cappellino di cartone colorato e di tenere fra i denti una trombetta o un fischietto e, qualche volta, fare sfoggio di una mascherina sulla fronte. Finta allegria di tante persone confuse nelle solitudine di una sala da ballo!

I giovani, purtroppo, (tranne quelli coinvolti nelle sfilate dei “carri”) forse presi da altre forme di divertimento, pensano che sia cosa inutile mascherarsi e andare in giro per le vie della città: preferiscono rinchiudersi nel buio maleodorante (e per fortuna non più fumoso) di una discoteca, facendo finta di ballare al suono di assordanti musiche moderne.

Forse, per troppi di essi non serve più festeggiare una volta l’anno Carnevale? Probabilmente oggi per troppi di essi tutto l’anno è Carnevale.

Confrontando il Carnevale di oggi con quello di ieri non posso fare a meno di pensare al  vecchio e caro Carnevale dei nostri padri, parentesi di allegria scanzonata, di scherzi e di travestimenti.

Purtroppo, ora la spontaneità ed il gusto del Carnevale sono finiti. Non si sente più il fascino dell’ingenuo travestimento carnevalesco: restano i bambini, unici appassionati delle maschere, a ricordarci, con il loro entusiasmo, che siamo a Carnevale. Infatti il Carnevale di oggi ha seguito l’evolversi del tempo.

La società attuale ha cancellato tutta la sua essenza popolare. Tutta la sua esplosione di allegria mattacchiona è quasi scomparsa: rimane solo il suo fantasma nella cronaca del tempo che fu e in noi, non più giovani, il ricordo e la nostalgia di un tempo nel quale, nonostante la povertà, c’era il gusto della vita e dell’allegria.

Oggi Carnevale è forse solo il pretesto per prendersi qualche giorno di libertà dal lavoro e, dato che la nostra Italia è tutta una vacanza forzata o meno, può darsi sia questo il motivo per il quale non è stato ancora definitivamente cancellato dalla nostra vita e dal nostro vocabolario.

Ieri era l’unica festa che rendeva allegra soprattutto la povera gente che, triste per l’anno che finiva, era solita dire “l’Epifania tutte le feste si porta via”, ma che, quasi contemporaneamente alla malinconica affermazione di prima, aggiungeva l’allegra certezza che “dopu i Tri Re si dici olè”. Così quel “curtu Fivaredd(r)u” che, col suo freddo invernale, faceva prepotentemente intirizzire i corpi delle persone, al pensiero della prima festività del nuovo anno, faceva riscaldare i loro cuori.

Scavando nella mia memoria ho trovato ricordi di quando, dopo l’Epifania si tiravano fuori da antichi bauli o cassettoni abiti in disuso dei nostri nonni o dei nostri genitori e, il Sabato e la Domenica nel periodo tra l’Epifania e il Carnevale, dopo cena, i giovani a gruppetti andavano in giro per le vie del paese con l’orecchio teso a cercare il suono di un grammofono o di un giradischi. E la gente non aveva paura a farli entrare e a permettere loro uno o più balli.

Nei tre giorni della festa era permesso “insanire”, fare cose da pazzi.

Si riversavano per le strade bambini, giovani e meno giovani, col volto coperto da maschere di cartone o di stoffa oppure semplicemente col viso pesantemente colorato di rosso, usando la carta velina rossa bagnata, o sporcata di nero con il carbone. In mezzo ad assordanti suoni di trombe e trombette, di tamburi di latta, di coperchi di pentole, di tricchi-tracchi, di spari di pistole giocattolo, immersi in un turbinio di coriandoli, spesso ricavati dal taglio di fogli di antichi giornali, lanciati a piene mani, si aggiravano per le vie del paese bambini vestiti da Arlecchino, Pulcinella, Moschettiere, Zorro, Sceriffo e bambine con splendidi costumi di dama settecentesca, di fatina, di contadinella, ma anche bambini e bambine vestiti di poveri indumenti reperiti a casa: una vecchia divisa del periodo relativo al servizio di leva di qualche fratello maggiore, un paio di pantaloni rattoppati, un cappotto vecchio, un paio di mutandoni della nonna, una veste sgualcita e qualche volta l’abito da sposa della mamma.

E giovani ed anziani si aggiravano per il paese travestiti con abiti dell’altro sesso e, come simbolo dell’inversione sociale, i poveri travestiti da ricchi e viceversa in osservanza del detto popolare che “a cannalivari semu tutti uguali”.

E poi c’erano le “mare”, che impersonavano le vecchie streghe e che si riversavano per le strade avvolte in uno scialle nero, con un fazzoletto sulla testa e una grossa maschera sul volto, munite di una robusta scopa o di un “muscaloru” il ventaglio per fornelli fatto con foglie intrecciate di palma nana e ancora i “ritunara”, uomini col volto coperto da una grossissima e grottesca maschera in carta pesta atteggiante un sorriso tra l’ironico e il canzonatorio, che si aggiravano, cercando di far paura ai bambini, avvolti nel “cappotto a finniolu”, il tabarro dei vecchi contadini, o creandosi enormi gobbe con cuscini e portando in spalla “u rituni” la rete che una volta i contadini usavano per trasportare la paglia.

In quello sciamare per le strade della gente c’era la voglia di evadere dalla realtà di ogni giorno, di divertirsi e lasciare divertire secondo le regole del Carnevale, anche se qualcuno usava scherzi talvolta pesanti, lanciando epiteti alle donne e rinfacciando loro qualche colpa di “scillicata” al punto da far reagire, a volte anche violentemente, i loro mariti.

Un divertimento soprattutto dei ragazzini era quello del “dacalà” fatto da striscioline di carta colorata tenute da una spilla la cui punta poi veniva piegata ad uncino ed era appuntato con leggerezza alle spalle della persona scelta, suscitando l’ilarità dei presenti.

Ma oltre a questo aspetto scanzonato e sfrenato c’era anche un aspetto gioiosamente familiare ed amichevole: come in ogni circolo ricreativo, così nelle famiglie chi aveva un locale molto ampio, anche da sgombrare dai mobili, lo metteva a disposizione e ci si riuniva in “associamento”, dividendosi le spese e le mansioni. La sera, i genitori, affidati i figli ai nonni, si recavano a “’u sonu”, al veglione, e si scherzava, si ballava valzer, mazurche e porche al suono di qualche grammofono a tromba e, verso la fine della serata, il capo-sala invitava tutti “masculi e fimmini di bona crianza/facemuni tutti ’sta cuntrananza” e la dirigeva  chiamandola, in un francese storpiato e alquanto sicilianizzato. Ci si divertiva fin a tarda notte con sana allegria e si dava  anche l’occasione per l’inizio di futuri matrimoni.
In quel tempo, infatti, era difficile avvicinare le ragazze.

Ebbene, l’“associamentu” ne dava l’occasione e il Carnevale, coi suoi travestimenti, le sue maschere, anche se era solo una mascherina e il dominò, offriva tutte le opportunità possibili a poter sussurrare qualche frase cortese, premessa di altre più sentimentali ed impegnative. Dopo il Carnevale quanti nuovi fidanzamenti!

Ma la festa non era solo danza e schiamazzo; c’era un aspetto che si consumava fra le pareti di casa nei quattro Giovedì tra l’Epifania e il Carnevale: il primo detto “lu joviri di li cummari” per rinvigorire il sentimento di cordialità fra amici e conoscenti, il secondo era “lu joviri di li parenti”, il terzo “lu joviri di lu zuppidd(r)u” dedicato alla distribuzione di cibo ai poveri e il quarto, quello più aspettato dai contadini, “lu joviri grassu”, il giorno in cui si uccideva il maiale. Se ne vendevano le carni ed entravano un po’ di soldi che davano vigore a tante speranze. Ma era anche il giorno della grande “abbuffata”, il giorno in cui si mangiava a sazietà un minestrone di legumi diversi cotti con grossi pezzi di carne di maiale, oppure il tanto atteso “cuscusu ca’ funcia di porcu”, il “piatto” di semola cotta e condita col brodo ottenuto cuocendo la testa di maiale. E ogni sera, nelle riunioni a casa dei nonni, ci si divertiva a raccontare barzellette e a cercare di rispondere agli immancabili ‘nnuvina',gli indovinelli. Belle serate senza televisore all’insegna di un’armonia familiare che ormai è solo un ricordo.

Inoltre, nel periodo che intercorreva fra l’Epifania e il Carnevale, se ci si aggirava per le vie del paese, grande mostra facevano “ u nannu” e “ ’a nanna”, personificazioni del Carnevale che, adagiati e legati ad una sedia, venivano esposti nei balconi o alle finestre o davanti all’uscio di casa. Erano goffi fantocci ripieni di stracci o di paglia, vestiti, lui con coppola, cravattone, panciotto, pantaloni e scarpe enormi, lei con una lunga gonna nera, corpetto,con un fazzoletto nero in testa annodato sotto il mento e, a volte, anche con uno scialle quasi sempre nero.

Ma tutta quella allegria, spensieratezza, gioia finiva il pomeriggio del Martedì con un morto: ’u nannu'.Il pupazzo, col volto coperto da una grossa maschera di cartone e con un’espressione triste e rammaricata, simulante un vecchio moribondo, veniva adagiato su un carro e portato, come in un corteo funebre per le vie del paese, non compianto da tutti, ma in mezzo ad un tripudio di maschere. Infine, la “carruzzata”, come veniva allora chiamato quel corteo funebre, terminava il suo percorso in piazza. Li, alla presenza di un numeroso pubblico,  un medico burlesco cercava di salvarlo dalla morte, con una laboriosa operazione alla pancia. E il “chirurgo” da quello stomaco squarciato estraeva oggetti vari, misti a lunghe corde di salsiccia di maiale. Ma dopo quella inutile e sudata operazione “u nannu”, la maschera raffigurante il vecchio, moriva. Prima, però, si premurava di lasciare “u testamentu” le sue volontà, le sue osservazioni sull’anno appena trascorso.

Queste poesie erano “i parti”, bei componimenti in endecasillabi, composti da poeti-contadini, spesso analfabeti, con le scarpe grosse ma con il cervello fine, come il Bertoldo dell’antica favola.

E Paceco fu patria feconda di tanti poeti-contadini. Ricordiamo Antonino Amoroso detto “Nuvaredd(r)a”, Pietro Culcasi, Giuseppe Culcasi, Antonino Raccosta, Serafino Culcasi e tanti altri che, il Martedì in piazza, alla presenza di un numeroso pubblico declamavano i loro componimenti, nei quali venivano satireggiati soprattutto personaggi locali ed anche nazionali: per ognuno di essi c’era una battuta pungente o un riferimento spiritosamente critico. Si ironizzava anche su avvenimenti accaduti in paese. Inoltre, in questi “parti” di denuncia sociale e di satira del costume venivano attaccati, senza offendere, anche politici corrotti, abituati a far promesse e a mai mantenerle. E la gente rideva e dimenticava le tribolazioni.

Non mi ero, però, mai chiesto prima perché questa festa, simbolo dell’allegria e della spensieratezza, doveva concludersi con un fantoccio “morto” in seguito ad una finta operazione chirurgica o, come in altre località, con un fantoccio impalato o impiccato e poi dato alle fiamme.

Per avere una soluzione al mio dubbio ho pensato che bisognava risalire alle possibili origini del Carnevale, le cui tracce storiche, purtroppo, nessuno ha potuto realmente conservare.

Infatti, riflettere come si svolge il Carnevale oggi o come veniva vissuto ieri è stato relativamente semplice, perché aiutato dalle immagini di manifestazioni recenti o di ricordi ancora vivi legati alla mia fanciullezza.

Riflettere sul Carnevale come era prima di ieri non è stato altrettanto semplice, perché non potevo fare riferimento ai miei ricordi, ma bisognavo risalire molto, molto indietro per avere esaurienti notizie. E queste notizie le contengono solo i libri.  Allora ho cominciato la mia ricerca.

Dai primi approcci con l’argomento mi sono reso conto, come prima cosa, che non è possibile far luce sui diversi aspetti che caratterizzano i festeggiamenti in quanto, nel corso dei secoli e in realtà geografiche diverse, il Carnevale si è arricchito di sfumature sempre nuove.

Taluni lo fanno risalire alle allegre ed allegoriche processioni degli Egizi in onore del dio Nilo o della dea Iside, altri alle feste romane in onore di Giano, cui era consacrato il primo mese dell’anno, o di Bacco - Dioniso o di Saturno la cui festa, detta dei “Saturnali” durava all’inizio tre giorni e poi sette giorni e si svolgeva tra la fine di Febbraio e i primi di Marzo e terminava con la messa a morte del re della festa.

L’esito della festa dei “Saturnali” e la lettura casuale di un libro su altro argomento mi ha dato la scintilla, l’input per la ricerca della soluzione che può compendiarsi nella frase che i dignitari di corte erano soliti pronunciare alla morte del loro re: “ E’ morto il re! Lunga vita al re! ' Le campane che prima avevano suonato a lenti rintocchi improvvisamente emettevano un gioioso scampanio.

 In verità, per trovare le origini dello “spirito” del Carnevale, bisogna andare molto indietro negli anni e in paesi molto lontani da noi e studiare le usanze di quei  popoli e le loro tradizioni e lo spirito che li ha determinati.

Tutti gli studiosi sono concordi nell’affermare che le origini della festa sono religiose e si ricollegano alle usanze, in base alle quali, i popoli, fin dall’antichità, erano soliti celebrare l’inizio dell’anno con cerimonie che augurassero buoni auspici.

Alla base di queste cerimonie c’era il credo che i popoli primitivi professavano, secondo il quale la loro salvezza e persino quella del mondo era legata alla vita di uomini - dei, o di incarnazioni umane delle divinità.

Infatti, questi popoli credevano che la vita e lo spirito del re fossero legati alla prosperità del loro paese e che la fertilità degli uomini, del bestiame e delle messi dipendesse dal potere generativo del re, così che l’indebolimento di quel potere implicava un corrispondente indebolimento negli uomini, negli animali e nelle piante e di conseguenza, a breve distanza, una completa estinzione di tutta la vita umana, animale e vegetale. Tuttavia, né quantità di cure, né attenzioni impedivano all’uomo - dio di diventare vecchio e debole e alla fine morire.

Pertanto, se il corso della natura dipendeva dalla vita dell’uomo - dio, non si doveva aspettare l’indebolimento graduale dei suoi poteri e la sua estinzione finale con la morte, ma, non appena comparivano i primi sintomi che i poteri dell’uomo - dio cominciavano ad affievolirsi, si doveva ucciderlo perché il valore attribuito alla vita dell’uomo - dio richiedeva la sua morte violenta come unico mezzo per preservarlo dall’inevitabile indebolimento dato dagli anni.

Per quanto possa sembrarci strano, il costume di condannare a morte il re divino ai primi sintomi di cattiva salute o di forza diminuita deriva dalla profonda venerazione che i sudditi avevano per lui e dall’ansioso desiderio di conservarlo nel più perfetto stato di efficienza.

Per i popoli primitivi sono abbastanza ovvi i vantaggi di uccidere l’uomo - dio, invece di permettergli di morire di vecchiaia o di malattia. Essi erano convinti che se  l’uomo - dio muore di morte naturale significa che la sua anima è partita volontariamente dal corpo e che rifiuta di ritornarvi.

Al contrario, uccidendolo ancora in pieno vigore e per nulla deteriorato dalla debolezza di una malattia o dalla vecchiaia, i suoi adoratori potevano essere in primo luogo certi di prenderne, mentre esalava, lo spirito divino, che egli aveva ereditato dai suoi predecessori e trasferirlo in un degno e vigoroso successore; in secondo luogo, mettendolo a morte prima che la sua forza naturale fosse indebolita, erano sicuri che il mondo non sarebbe caduto in rovina con la rovina dell’uomo - dio.

A tale scopo, presso alcune tribù africane, le mogli dei re avevano il dovere di denunciare al consiglio degli anziani i primi segni di impotenza del coniuge, pena, in caso di non denuncia, la loro morte.

A conferma di quanto detto prima viene tramandato che non era permesso di morire di morte naturale ai mitici re del fuoco e dell’acqua nella Cambogia e sembra che dello stesso avviso fossero i popoli del Congo e gli Etiopi. Era costume presso gli Zulù condannare a morte il re appena cominciava ad avere le rughe o i capelli grigi perché erano segni evidenti di incapacità ad essere monarca di un popolo bellicoso. Inoltre sappiamo che simili consuetudini siano esistite in alcune regione dell’Africa fino ai tempi moderni. Infatti, l’usanza di mettere a morte i re divini ai primi sintomi di infermità o di vecchiaia fu in vigore fino a poco tempo fa presso alcune tribù del Nilo bianco.

Secondo la credenza sinora descritta al re divino era permesso dal popolo di restare in carica sino a che qualche difetto esteriore, qualche visibile sintomo di salute cadente o di età avanzata avvertisse il popolo che egli non era più in grado di assolvere ai suoi doveri divini.

Pertanto, in questo atteggiamento verso la eliminazione dei re è caratteristico che i popoli antichi si astengono dal parlare di essa come una morte: non dicono che il re è morto, ma semplicemente che è “andato via” (vedi in italiano il vocabolo “trapasso” per indicare la morte) e dei loro antenati divini non dicono che sono morti, ma che disparvero.

Leggende dello steso tipo sulla misteriosa scomparsa di re primitivi si trovano in altri paesi, ed anche nella nostra storia.  Ad esempio a Roma il mito di Romolo assunto in cielo e venerato successivamente col nome di Quirino, può bene indicare un simile uso di condannare a morte i re col proposito di conservare la loro vita.

Col passare degli anni sembra che qualche popolazione abbia pensato che fosse rischioso aspettare il minimo sintomo di decadenza e abbia preferito uccidere il re mentre questi era ancora nel pieno vigore della sua vita. Pertanto è stato fissato un termine oltre il quale egli non poteva regnare ma doveva morire, avendo fissato il termine abbastanza corto da escludere la possibilità di una sua degenerazione fisica. In qualche parte dell’India meridionale il periodo fissato era di 12 anni.

In base a queste supposizioni vi sono delle buoNe ragioni per credere che il regno di molti antichi re greci fosse limitato ad otto anni, o almeno che alla fine di ogni periodo di otto anni si stimasse necessaria una nuova consacrazione, una nuova rivelazione della grazia divina per dare ad essi il modo di adempire ai loro doveri civili e religiosi. La tradizione ricorda chiaramente che, alla fine di ogni otto anni, i sacri poteri del re avevano bisogno di essere confermati da una comunicazione con la divinità e che la mancanza di questo rinnovamento avrebbe compromesso i suoi diritti al trono.

Si racconta infatti che Minosse, alla fine di ogni periodo, si ritirasse nella caverna profetica sul monte Ida e là comunicasse col suo divino padre Zeus, dandogli un resoconto sul regno degli anni passati e ricevendone istruzioni per guidarlo negli anni futuri.

Successivamente la forma del vecchio costume regicida venne mitigata. Il re abdicava annualmente per breve tempo e il suo posto veniva occupato da un sovrano nominale.

Si potrebbe spiegare questo costume semplicemente come un rito in cui il condannato fosse destinato a morire al posto del re e che, per fare perfetta la sostituzione, era necessario che egli godesse i pieni diritti della regalità durante il suo breve regno.

A tale scopo, lo storico Beroso, che era sacerdote di Babilonia, ci testimonia un rito simile durante la festa in onore della dea Anatide, detta delle Sacee. Cominciava il sedicesimo giorno del mese di Lus (Febbraio) e durava per cinque giorni, durante i quali padroni e servi cambiavano stato sociale, i servi davano ordini e i padroni li ubbidivano. Inoltre, un prigioniero condannato a morte veniva vestito con manti regali, posto sul trono del re e gli era permesso di proclamare qualsiasi decreto gli piacesse, di mangiare bene, divertirsi e giacere con le concubine del re. Ma alla fine dei cinque giorni veniva spogliato delle vesti regali, sferzato e impiccato o impalato.

Nella Sassonia, in Turingia e in Boemia, questo rito viene chiamato “ la morte del Carnevale ” e si svolgeva nel modo seguente: una schiera di giovani si mascherava e portava una cintura di corteccia e delle spade di legno. Il re indossava un manto di corteccia d’albero adorno di fiori e aveva in testa una corona di corteccia, coperta di fiori e di foglie, mentre i piedi erano avvolti di felce; una maschera gli nascondeva il viso e per scettro teneva in mano una bacchetta di biancospino. Un ragazzo lo conduceva attraverso il villaggio con una corda legata al piede, mentre gli altri gli danzavano intorno, suonando trombe e fischiando. Durante il tragitto il re veniva schernito. Alla fine il re era processato. Il verdetto era sempre quello di condanna a morte.

Col passare degli anni, il prigioniero, re momentaneo, non veniva più ucciso, ma sottoposto ad una finta esecuzione come ricordo del tempo in cui veniva messo a morte realmente e questa usanza, legata alla civiltà agro - pastorale, si tramutò in una cerimonia tra il sacro e il profano, come un rito propiziatorio per il rinnovamento della fecondità, in particolare della terra, attraverso l’esorcismo della morte.

Pertanto, se riflettiamo sull’essenza di queste cerimonie non possiamo fare a meno di riconoscere nel Carnevale lo spirito della vita simboleggiata dallo spirito della vegetazione.

Allora viene spontaneo chiederci: se questi personaggi presenti nei riti rappresentano lo spirito della vita a che scopo ucciderli soprattutto in primavera quando i loro servigi servono più che mai ?

L’unica risposta probabile a questa domanda sembra essere data dalla spiegazione già data sul costume di uccidere il re – dio. La vita divina, incarnata in un corpo mortale, è soggetta a venire sciupata e corrotta dalla debolezza del fragile contenitore, il corpo, in cui è per un certo tempo conservata. Se si vuole salvarla dall’indebolimento crescente,  necessariamente la sua natura divina deve essere divisa dalla sua incarnazione umana prima che egli avanzi in età o per lo meno appena egli mostri segni di decadenza, affinchè possa essere trasferita in un successore vigoroso. L’uccisione del dio, ossia della sua incarnazione umana, è semplicemente un passo necessario verso il suo rinvigorimento e verso la sua risurrezione in una forma migliore e, di conseguenza, verso il rinnovamento cosmogonico della vita.

Se questa spiegazione per l’uccisione dei re divini è giusta, essa si può senza dubbio applicare anche meglio al costume di uccidere ogni anno i rappresentanti dello spirito della vegetazione in primavera. Poiché il decadere della vita delle piante in inverno è interpretato dall’uomo primitivo come indebolimento dello spirito della vegetazione, egli crede che lo spirito si sia invecchiato e indebolito e deve perciò essere rinnovato col venir ucciso e riportato alla vita in una forma più giovane e fresca. Così l’uccisione del rappresentante dello spirito della primavera è considerata come un mezzo per favorire ed affrettare la crescita della vegetazione.

Fin qui ho cercato di capire perché il Carnevale doveva concludersi con la morte del suo re: l’uccisione del re - dio è solamente un passo verso il rinvigorimento o la resurrezione del creato.

Ma perché dopo essere stato ucciso e anche impiccato o impalato  il re del Carnevale doveva essere quasi sempre bruciato?

Per dare una risposta a questa domanda dobbiamo tenere presente che, in questo contesto, gli elementi da considerare sono due: la morte della personificazione del Carnevale e la morte stessa. La prima cerimonia cade l’ultimo giorno di questo allegro periodo, la seconda il giorno successivo: il Mercoledì delle Ceneri.

L’uccisione del fantoccio rappresentava il simbolo dell’espulsione dell’anima, un “trapasso”, una reincarnazione per dare inizio ad una nuova vita.

La morte è da ritenersi l’influenza animatrice e fertilizzante dello spirito della vita che si concretizzava nel rito del giorno successivo.

Questa usanza ha avuto origine nella civiltà agro – pastorale, quando il dio ucciso, che avrebbe dato la possibilità di vivere per il suo sacrificio, divenne un animale o il grano o un immaginario essere umano rappresentante il grano.

A conferma di questa supposizione bisogna tenere presente una usanza della Cambogia, secondo la quale il re abdicava ogni anno nel mese di Febbraio, per tre giorni. Durante questo tempo non eseguiva nessun atto d’autorità. In sua vece regnava un re temporaneo chiamato il “ Re di Febbraio ”. Dopo aver portato omaggio al vero re, dal quale riceveva la sovranità per i tre giorni, muoveva in processione intorno al palazzo e attraverso le strade della capitale. Al terzo giorno, dopo la solita processione, il re temporaneo dava ordine che gli elefanti calpestassero la “montagna di riso”, un palco di bambù circondato da covoni di riso. Alla fine, la gente raccoglieva e portava a casa un po’ di quel riso per essere sparso nei nuovi terreni da coltivare per assicurarsi un buon raccolto.

Allo stesso modo i contadini dell’epoca più vicina a noi, dopo aver bruciato l’ultimo giorno di Carnevale il fantoccio di paglia, il mercoledì successivo, andavano a raccogliere un po’ di quella cenere e, alla pari dei Cambogiani, si recavano nei campi e la spargevano sul suolo da coltivare perché il nuovo raccolto fosse abbondante.

Come il riso per i Cambogiani così la cenere del fantoccio per i contadini era lo spirito della vita, lo spirito della Primavera che avrebbe ridato forza e vigore ai campi, sostentamento della loro vita.

Sarebbe stato opportuno esaminare la funzione liturgica delle ceneri nel rituale cristiano che caratterizza il primo giorno di Quaresima, ma il tempo è tiranno. Possiamo brevemente dire che essa ci ricorda, nella vecchia formula, che siamo polvere e ritorneremo polvere, ma contemporaneamente con la nuova formula “Convertitevi, e credete al Vangelo” esorcizza la morte, dandoci la forza della rigenerazione e della salvezza coll’azione del celebrante nel metterci un po’ di cenere benedetta sul capo o sulla fronte.

Per concludere: Il Carnevale si inquadra in un ciclico dinamismo di significato mitico. In Primavera, quando la terra inizia a manifestare la propria energia, il Carnevale rappresenta il passaggio dal Regno dei Morti alla Terra abitata dai vivi delle anime, in una forma più giovane e fresca, le quali, per non diventare pericolose, devono essere onorate.

A questo scopo i viventi prestano loro dei corpi provvisori: le maschere. Queste forze soprannaturali, riuscendo a fraternizzare allegramente con i viventi, creano un nuovo regno della fecondità della Terra. È  la vita che torna a sbocciare.''

 La conclusione della relazione è stata seguita dall'apertura di un dibattito che ha visto la partecipazione di molti dei presenti che hanno apportato alla discussione non solo considerazioni personali ma posto domande e chiesto altri chiarimenti. Si è anche parlato  degli usi legati al Carnevale nell'antica Trapani. Ad esempio i ricchi sfilavano con le loro carrozze per le vie del centro lanciando manciate di confetti miste a monetine che venivano prontamente raccolte dal popolino; i vari quartieri della città invece combattevano alacremente lanciandosi reciprocamente frutta e verdura per conquistare i gradini del Palazzo Cavarretta e quando una fazione riusciva nel suo intento la fazione che perdeva veniva inseguita e dileggiata fino al rione di appartenenza salvo a riprendere successivamente la lotta  per ottenere la rivincita. L'indossare una maschera o mascherarsi era tuttavia un modo che portava ad una disinibizione temporanea attraverso la quale ognuno poteva illusoriamente essere e sentirsi l'opposto di quello che era.


Concluso il dibattito, il Prof. Valenti ha offerto all'oratore a ricordo della serata un piatto in ceramica di Burgio sponsorizzato dalla Ditta Bono Antiquariato di Trapani.

La serata si è conclusa con l'arrivederci a sabato 21 febbraio 2015 alle ore 18.00 nei locali dell'Associazione per il prossimo incontro in programma e per coloro che vi volessero prendere parte al '' Carnevale in allegria '' che è stato orgaqnizzato per martedì 17 febbraio 2015 alle ore 19.00 nei locali del sodalizio.

 

 

 

 

 

 

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