2016 - 04 - 30: Prof. Michele Russo - I patruneddri di casa
Sabato 30 aprile 2016 alle ore 18.30 nella sala delle riunioni dell'Associazione per la Tutela delle Tradizioni Popolari del Trapanese sita in Trapani via Vespri 32 con la partecipazione di un numeroso gruppo di soci e di simpatizzanti si è tenuto il settimanale incontro previsto dal programma del XXX
Corso di cultura per l'anno 2016.
Relatore della serata il Prof. Michele Russo, socio del sodalizio, da sempre interessato alla cultura ed alla storia locale ed autore di varie ricerche, talvolta particolari, come quella oggetto del tema della serata.
Dopo aver aperto i lavori della serata, il Prof. Valenti, prima di cedergli la parola, ha comunicato ai presenti le seguenti informazioni organizzative:
- l'appuntamento, per i partecipanti che non fossero dotati di mezzo proprio per raggiungere la Trattoria del sale, sede della scampagnata, è stato fissato alle ore 12.15 a Piazza Stazione per andare via alle ore 12.30 per raggiungere il locale
- l'appuntamento per coloro che si fossero prenotati per partecipare all'escursione del 7 ed 8 maggio 2016 ad Enna, Pergusa e Caltagirone è stato fissato a Piazza Vittorio alle ore 07.00 con partenza alle 07.30
- il calendario degli incontri settimanali, per vari motivi, ha subito le seguenti variazioni:
- la relazione del Dott. Mimmo Macaluso prevista per il 7 maggio 2016 è stata spostata a sabato 14 maggio 2016 alle ore 18.00 a causa dell'escursione a Enna, Pergusa e caltagirone
- la relazione del Prof. Maurizio Vitella prevista per il 14 maggio 2016 è stata spostata a sabato 21 maggio 2016 alle ore 18.00 al posto di quella del compianto Dott. Alestra
- l'escursione a Caltabellotta - Burgio prevista per domenica 15 maggio 2016 è stata invece spostata a data da destinarsi.
e ciò detto, ha passato la parola all'oratore.
Il Prof. Russo ha aperto il suo intervento ringraziando l'Associazione per l'invito rivoltogli a relazionare su di un tema di per sè particolare ma che risulta in linea con le tradizioni popolari del territorio.
Per sua gentile concessione si riporta integralmente quanto dallo stesso riferito avendo il Prof. Russo concesso il testo integrale della sua relazione comprese anche, a maggior chiarimento, le note bibliografiche da cui ha tratto informazioni in merito al particolare tema della serata.
I “Patrunedd(r)i di casa
Tutte le mie ricerche, sia che poi si trasformino in articoli, sia in relazioni, il più delle volte, ricevono la spinta da episodi casuali. La ria sull’argomento di questa sera è nata così:
Come da antica consuetudine, recatomi a casa di una prossima sposa per portarle il mio regalo di nozze, sono stato invitato a “girare pi’ prèju”(1) l’appartamento che avrebbe ospitato le nuova famiglia che di li a pochi giorni si sarebbe costituita.
Andando per le stanze, il mio sguardo, però, è stato attratto più che dai mobili e dai vari suppellettili e regali abilmente messi in bella mostra, da alcuni “oggetti” posti agli angoli delle stanze che hanno richiamato al mio ricordo usanze sopite e credenze del popolo siciliano ormai sconosciute ai giovani ma che, mi accorgevo, continuavano a vivere e ad essere tramandate in qualche famiglia ancora legata ad antiche memorie: cioè la convinzione che ogni fabbricato fosse abitato da esseri soprannaturali: i “patrunedd(r)i di casa”.
Cerco, pertanto, di approfondire le mie conoscenze sulle antiche usanze e credenze di questa nostra Sicilia, dove il mito spesso si è confuso con la storia ed il mistero del mondo magico con la realtà del quotidiano.
Apprendo così dagli scritti che:
· alcuni studiosi assimilano questi patrunedd(r)i alle anime dei morti uccisi violentemente, le quali sono condannate a vagare per parecchi anni nel mondo prima di poter entrare nel regno dei morti;
· altri li considerano simili ai Lari(2) e ai Penati(3),
· altri infine simili alle Lamie(4).
Il Pitrè nel suo volume “Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo siciliano”(5) ci tramanda che questi “spiriti” vengono chiamati “Donni di fuora”, “Dunnuzzi di locu”, “Donni di locu”, “Donni di notti”, “Donni di casa”, “Donni”, “Dunzelli”, “Signuri”, “Belli signuri”, “Padruni di lu locu”.
Col rispetto di tanti dotti studiosi, sono convinto che queste “misteriose signore” non hanno nulla in comune con le anime dei familiari morti, né con le “Donne di fuora”, o “Donne di notte” o semplicemente “Donni”, “Donzelli”, “Signuri”, né con le Lamie, gli “spiriti” perché questi ultimi “esseri” soprannaturali sono tramandati dalle credenze del popolo un po’ streghe e un po’ fate, figure femminili belle ed affascinanti che, impadronendosi dei corpi delle persone, possono esercitare il loro mestiere di maghe, presentandosi in piena notte nelle abitazioni di persone, scelte a loro piacimento, sotto forma di animali vari o di spiriti e “sciogliere” e “legare fatture” o fare sortilegi vari.
Erano questi attributi ed atteggiamenti propri delle fattucchiere o “spiritara” come anticamente venivano chiamati.
Stante a questa distinzione fatta, nell’esoterismo siciliano i “padrunedd(r)i di casa” possono solo riconoscersi nelle “Donzelli di locu” o “Donni di locu” o “Donni di rintra” o “Padruni di lu locu”, perché questi “spiriti” abitano quasi perennemente nella casa ove essi hanno scelto di stare, divenendone i veri padroni e, sebbene invisibili, partecipano a tutte le gioie e a tutti i dolori della vita domestica e familiare, divenendo un componente di quella famiglia.
Nella credenza popolare questi proprietari invisibili della casa sono donne, per cui sarebbe più opportuno chiamarli “padunedd(r)e di casa”. Scrive a tal proposito il Pitrè(6) “ … hanno del matronale per aitanza di persona, per opulenza di forme, per copia e lucidezza di chiome e per una tal maestà di andatura, di pose, di voce che è una bellezza per se stessa; e, meticolose quant’altre mai, amano la pulitezza e la compostezza fino allo scrupolo; e nelle case dove vanno vogliono trovare tutto in bell’ordine, ben rifatto il letto, bianche ed odorose le lenzuola, sprimacciati i guanciali, splendido il rame della cucina, benissimo spazzate le stanze.”
Inoltre, sono ritenuti geni balzani e volubili, ma non naturalmente cattivi, anche se disposti e fermamente decisi a giovare o a nuocere, ad arricchire o ad impoverire, a far belli o rendere brutti, spinti da un solo movente: il capriccio, la bizzarria, una certa loro maniera di vedere e giudicare le cose. E allora non bisogna dispiacere loro perché non sempre sono cattivi o malefici, ma neanche bisogna mai nominarli senza un vero motivo per non disturbarli
Coscienti, pertanto, della loro potenza amano essere invocati con rispetto, accolti con dovuta premura, essere ricolmi di gentilezza e di cortesie e circondati di riguardo per cui diventano proprizi e favorevoli a quella famiglia che è da loro ben vista concedendo ad essa il dono della fortuna mentre in à caso contrario non ci sarà tranquillità ed essa sarà tormentata da malattie, dispiaceri, contrarietà d'ogni specie.
Trovandosi una famiglia in questa ultima situazione il popolo è solito dire che la “ casa nun li voli ”, cioè che i “ patrunedd(r)i di casa” non sono contenti di questa famiglia per cui è meglio, per il suo bene, che vada via. Per evitare che ci si possa trovare in questa situazione spiacevole, qualche giorno prima di andare ad abitare in una nuova casa, era, pertanto, prassi “ammitari li cantuneri”, cioè rendere omaggio agli spiriti protettori della casa per renderseli amici e propizi. Tale cerimonia consisteva nel mettere in ogni angolo della casa delle monete con due o tre patate, poi soffermarsi davanti a tali angoli e, tenendo in mano un “cufuni” (braciere) acceso, vi si faceva bruciare un po’ di incenso e rosmarino e qualche foglia di alloro(7). Mentre il fumo dell’incenso e l’odore del rosmarino e dell’alloro si spargeva nella stanza i familiari recitavano la seguente preghiera: “Patrunedd(r)i di casa mia, vi ammitu di ristari ‘na ‘sta casa. Datici saluti, paci e beni. Acchianai scala d’argentu e scinnivi scala d’oru, donzelli miei, aiutati a mia e a tutti chidd(r)i di la casa mia”(8).
Finito il suffumigio odoroso, in alcune zone della Sicilia si è soliti gettare ai quattro angoli della stanza acqua “maritata”, cioè acqua benedetta raccolta dalle fonti di sette parrocchie, o semplicemente acqua benedetta e ripetere per quattro volte:
Jettu st’acqua a sti quattru cantuneri,
Pi’ fari unuri a sti quattru Signuri.
La me casa nun si l’hannu a scurdari,
Pruvvidenza m’hannu a dari (9).
Poi, la sera, era doveroso lasciare la tavola imbandita con pane e vino e soprattutto non doveva mai mancare il pesce fritto e la verdura cotta per avere una vita felice, il miele per assicurarsi la provvidenza, sale ed olio contro il malocchio, soldi per propiziarsi le ricchezze. L’indomani mattina le donne sparecchiavano la tavola e buttavano tutto il cibo col quale si era imbandita la tavola.
Da questo momento in poi ogni azione della nuova famiglia doveva essere imperniata nel rispetto di tali “spiriti”.
Il popolo, ma soprattutto le donne credevano che i patrunedd(r)i di casa manifestassero amori e odi, simpatie ed antipatie soprattutto nei riguardi dei bambini, specialmente dei lattanti, per i quali avevano un gran debole. Si credeva che li pulissero, li portassero in braccio, li accarezzassero, li coccolassero, ma, nei momenti di malumore, per un semplice capriccio, facessero loro grandi dispetti: li spaventassero nel sonno o li facessero piangere di continuo e in modo insopportabile o li nascondessero sotto il letto o sotto il tavolo. In quest’ultimo caso, se la madre si indispettiva o strillava il bambino sarebbe morto fra breve; se invece avesse detto:
Oh ch’è graziusu mè figgiu!
Diu benedica a li nostri bedd(r)i Patruni e Signuri!
o semplicemente:
Figghiu meu! Biniridi, binirici, biniriri!
E lo prendeva da terra e lo portava a letto, allora il bambino sarebbe cresciuto prospero e bellissimo. Al contrario, se il bambino nel sonno sorrideva era perché stesse “giocando con i patrunedd(r)i” che lo facevano sorridere e divertire.
A tal proposito il Pitrè (10) riporta una ninna – nanna che le mamme erano solite cantare:
Quannu ha’ durmutu, ti vuoju chiù beni,
Stu sonnu a la mè figghia cci va e veni;
E ‘nta lu sonnu la fannu arririri
Certi Signuri, ca ‘un lu pozzu diri.(11)
Talvolta, questi geni divertendosi ad accarezzare i bambini, toccavano i loro capelli a punto tale da legarli in una treccia inestricabile che prendeva il nome di “trizza di mara”. Questa treccia era il segno della protezione di cui godeva il bambino ed era auspicio di buona fortuna per se e per la sua famiglia. Naturalmente nessuno osava mai tagliarla o scioglierla per paura di scatenare lo sdegno degli spiriti che avrebbero potuto vendicarsi, facendo venire al bambino lo strabismo, il torcicollo, la gobba o “fallu acciuncari cu’ rammolimentu da schina”(12).
Quando la “trizza” sarebbe caduta da sola, la tradizione popolare vuole che si doveva avvolgere in una stoffa di colore rosso e conservarla.
Pertanto, per scongiurare queste disgrazie, ogni madre doveva a questi geni tutelari i massimi riguardi fin dai primi giorni di vita del bambino. Da qui la preoccupazione delle giovani madri, appena dato alla luce un bambino, di rivolgere delle preghiere a questi spiriti domestici per ingraziarseli e renderseli benevoli.
Di solito erano, però, le nonne che, tenendo il neonato in braccio, soffermandosi ad ogni angolo delle stanze, lo “presentavano ai patrunedd(r)i” e li invitavano a stare vicini al neonato per festeggiare la nascita e, intenzionalmente, per prenderlo sotto la loro buona protezione, recitando una preghiera invocatoria che suona più o meno così,:
Patrunedd(r)i mei, biniriciti ‘dd(r)a unni siti.
V’ammitu che è natu un picciridd(r)u (o ‘na picciridd(r)a).
Datici saluti e beni.
E avemu a stari tutti ’ncumpagnia(13).
Inoltre, se il neonato era un maschio, l’acqua del primo bagnetto doveva essere buttata nella strada, fuori dalla porta, perché i “patrunedd(r)i di casa” l’avrebbero fatto crescere maschio, espansivo ed amante della vita sociale. Se ciò non fosse fatto, il bambino sarebbe diventato effeminato e non avrebbe mai lasciato la casa paterna.
A Modica, secondo la credenza ed opinione di molte popolane, un bambino, al suo nascere, passava dalla protezione della Madonna a quella delle “patrone della casa”. Per tale avvenimento la parente più anziana collocava sul tavolo o sul coperchio di una cassa nove fave nere, e le deponeva a forma di cuneo borbottando tra i denti:
Favi favuzzi,
Ch’hannu niuri li ‘uccuzzi;
E viniti ccu lu suli,
Cà la menza è priparata;
E facièmuci anuri
A lu figgiu (o a la figghia) e a la figghiata!(14)
E si era così sicuri che le “ patrone di casa ” non sarebbero state ostili né al neonato né alla puerpera.
Presso alcune famiglie, quando la nascita avveniva in casa, nella notte seguente l’evento, chiuse ermeticamente le finestre dove si trovava la creatura, si era soliti mettere un pizzico di sale dietro l’uscio e tenere accesa la luce affinchè il genio malefico non entrasse e non vi potesse fare del male.
In altre famiglie c’era l’abitudine di non lasciare solo e al buio il bambino fino a quando non fosse stato battezzato, perche le “patrone della casa” avrebbero potuto fare loro del male. Se, poi, era necessità di lasciarlo per un poco, si metteva sulla culla un corno al quale era attaccata una crocetta di canna.
Riporta, inoltre, il Pitrè(15) che, quando il bambino doveva coricarsi in una culla fuori della propria casa, prima di adagiarlo, nel dubbio che i patrunedd(r)i di quella casa si sarebbero potuti mostrare ostili a quel bambino in una culla che non era la sua, la madre era solita fare uscire alcune gocce di latte dal proprio seno e, facendole schizzare su quella culla, diceva: “Ddocu ti fici tò matri”(16). Se la culla era nella propria casa, e vi si coricava per la prima volta, bastava segnare una crocetta al momento di adagiarlo.
Ma, in generale, dovendosi adagiare nella culla o dalla culla riprendere il bambino, nulla si poteva fare senza il compiacimento dei “patrunedd(r)i di casa”. Ad esse andava chiesto il permesso di deporvi il bimbo, ad esse bisognava rivolgersi nel prenderlo, per cui si diceva: “Cu licenzia di lor Signuri”, o “ ‘Nnomu di Diu” o “Cu vostra licenzia, Signuri mei”(17).
Il rispetto per questi esseri nel popolo era altissimo da essere considerati come angeli custodi per cui quando si usciva da casa si era soliti salutarli in questo modo:(18)
Jò vi salutu, Patruni di locu,
Jò vi salutu, e a vui vi lassu ddocu.
Si vuliti vèniri ccu mia
Mi faciti ’na santa cumpagnia.
Anche a sera, prima di andare a letto, i componenti della famiglia, ma soprattutto le donne, avevano l’abitudine di rivolgere a loro il seguente saluto(19)
Jò vi salutu, Patruni di casa,
Lu mali cci nesci e lu beni cci trasa.
Jò vi salutu, Patruni di luocu,
Jò vaju a durmiri, e vui ristati ddocu:
Si vuliti durmiri ccu mia
Mi faciti ‘na santa cumpagnia.
Si faceva seguire il saluto con la recita di un Padrenostro.
Se poi, durante la notte, qualcuno della famiglia doveva alzarsi dal letto per qualsiasi bisogno, doveva camminare con le braccia distese agitandole sempre per riverenza verso quelle “Signore” e “Patrone”, e per timore che non li urtassero.
Se trascurava questi riguardi, la famiglia e soprattutto la persona, che mancava di rispetto, avrebbe potuto avere guai.
Si potrebbero riferire tante altre testimonianze perché non c’è paese della Sicilia in cui non si credeva in questi ed altri esseri benefici o malefici perché essi fanno parte dello spirito e della mentalità del popolo siciliano.
Mi rendo conto che non è facile spiegare il fenomeno in tutte le sue sfaccettature, perchè dovremmo dilungarci sulla religiosità popolare fatta di miti e di culti antichi, nati e praticati nella nostra isola.
Oggi, però, ci si può domandare: si può ancora credere a questi “spiritelli”?
Lascio a ciascuno , se lo vuole, la libertà di continuare a credere a questa e ad altre tradizioni esoteriche, anche se la scienza e la ricerca medica hanno dato sufficienti spiegazioni su alcune “conseguenze delle cattive giornate” dei padrune(r)i di casa.
Tuttavia, come dicevo all’inizio, ritengo che sia da parte nostra un grande errore che tali credenze non vengano tutelate e tramandate alle nuove generazioni, non perché i giovani di oggi le debbano rivivere, sarebbe anacronistico, ma perché, apprendendole e avendo memoria del passato possano essere fieri della ricchezza della civiltà dalla quale discendono.
Note bibliografiche
1. Visitare la casa come augurio
2. Lari: Divinità ritenute protettrici della casa in quanto dimora;
3. Penati: Spiriti ritenuti protettori prima della dispensa ed in seguito della casa e dei suoi abitanti. Il suo nome deriva da Penatus che significa dispensa;
4. Lamie: Riporta G. Filoteo degli Omodei, ….. , libro III, pag.363: Presso gli antichi erano chiamati Lamie certi esseri, i quali sotto forma di bellissime donne, con le loro carezze e lusinghe, divoravano i bambini e i giovani. Di ciò fa menzione Orazio nel primo libro dei “Carmi” e Filostrato in “Apollonio”, dove si dice che le Lamie sono da alcuni chiamati quegli spiriti e quelle ombre fantastiche, che si vedono la notte, da alcuni chiamati “larve” o “lemures”. E aggiunge che sono molto intende all’amore e desiderose della carne umana, e perciò provocando i giovani più belli alla libidine, li divorano;
5. Giuseppe Pitrè, Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Vol. IV, Ed. Clio, La Punta (CT), 1993, pag. 163;
6. Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, Op. cit., pagg. 163 - 164;
7. L’alloro allontana i litigi e le incomprensioni, mentre il rosmarino è il simbolo dell’immortalità dell’anima. A tal proposito, Ovidio nelle Metamorfisi racconta la storia della principessa Leucotoe, figlia del re di Persia, che sedotta da Apollo, intrufolatosi furtivamente nelle sue stanze, dovette subire l’ira del padre, che la uccise per la sua debolezza. Sulla tomba della principessa i raggi del sole penetrarono fino a raggiungere le spoglie della fanciulla, che lentamente si trasformò in una pianta dalla fragranza intensa, dalle esili foglie e dai fiori viola-azzurro pallido. Da questa leggenda deriva l’usanza degli antichi Greci e Romani di coltivare il rosmarino come simbolo dell’immortalità dell’anima; i rami venivano adagiati fra le mani dei defunti e bruciati come incenso durante i riti funebri. Orazio infatti diceva: “ Se vuoi guadagnarti la stima dei morti, porta loro corone di rosmarino e mirto. Nell’antica Grecia veniva bruciato al posto dell’incenso per fare sacrifici agli dei. Nei Capitoli di Carlo Magno la specie è presente nell’elenco delle piante che non devono mancare negli orti del regno. Nel Medioevo veniva usato per scacciare spiriti maligni;
8. Patroncine della mia casa, vi invito a restare in questa casa. Dateci salute, pace e benessere. Ho salito scale d’argento ed ho sceso scale d’oro. Mie signore aiutate me e tutti quelli che abitano questa casa;
9. Spargo quest’acqua a questi quattro angoli, / Per fare onore a queste Signore. / La mia casa non se la devono dimenticare, / Provvidenza mi devono dare:
10.Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, Op. cit., pag. 181;
11.Quando hai dormito, ti voglio più bene, / Questo sonno a mia figlia va e viene; / E mentre dorme la fanno ridere / certe signore, che non posso nominare;
12.Farlo diventare storpio con la deformazione della colonna vertebrale;
13.Patroncine mie, benedicete là dove siete. / Vi faccio sapere che è nato un bambino (o bambina). / Dategli salute e benessere. / E dobbiamo stare tutti in compagnia (cioè in pace e d’accordo);
14.Fave , piccole fave, / Che hanno nera le boccuccie; / E venite con il sole (di giorno), / Qua la tavola è preparata; / E rendiamo omaggio al bambino (o alla bambina) e alla partoriente; 15.Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, Op. cit., pag. 182;
16.Qui ti ha fatto nascere tua madre;
17.Col permesso di lor signore, o In nome di Dio, o Col vostro permesso, signore mie;
18.Io vi saluto, Padrone del luogo (casa), / Io vi saluto e voi rimanete lì. / Se volete venire con me / mi farete compagnia;
19.Io vi saluto, Padrone della casa, / Il male esca fuori e il bene vi entri. / Io vi saluto , padrone del luogo, / Io vado a dormire, e voi restate lì; / Se volete dormire con me, / mi farete una santa compagnia.
Alla fine della relazione, seguita peraltro con interesse dai presenti, ha fatto seguito un dibattito nel corso del quale molti dei presenti sono intervenuti apportando le loro conoscenze in merito all'argomento la maggior parte delle quali apprese o sentite dire dalle donne più anziane o dalle nonne nel periodo della loro fanciullezza e giovinezza.
In ogni caso tuttavia si è constatato che anche in altre zone o paesi, anche se con nomi diversi o diverse fattezze, si riscontrano situazioni e credenze simili che in fondo in fondo nascono dalla necessità dell'uomo di credere in qualcosa che lo possa proteggere in modo soprannaturale dalle avversità della vita.
Chiuso il dibattito e prima dell'arrivederci ai prossimi appuntamenti previsti dal calendario delle attività del XXX Corso di cultura, il Prof. Valenti a ricordo della serata ha offerto al relatore il libro '' La scia dei tetraedri - Nel mare gastronomico delle Egadi '' di E. Milana.