2017 - 06 -10: Dott. Giorgio Geraci: La psiche dei siciliani nei tempi

Sabato 10 giugno 2017 alle ore 18.15 nella sala delle conferenze dell'Associazione per la Tutela delle Tradizioni Popolari del Trapanese sita in Trapani via Vespri 32, con la partecipazione di un numeroso gruppo di soci, si è tenuto il settimanale incontro previsto dal programma delle attività del XXXI Corso di cultura per l'anno 2017.

Il Dott. Giorgio Geraci, relatore della serata, che per la prima volta ha partecipato alle attività culturali del sodalizio, è stato accolto cordialmente dal Presidente, Prof. Salvatore Valenti, e dai presenti. 

Aperti i lavori della serata con una breve presentazione dell'ospite, il Presidente gli ha ceduto la parola.

Il Dott. Giorgio Geraci, palermitano '' inside '', come di è dichiarato, è in quiescenza da un anno ed ha esplicato la sua attività per ben 35 anni presso l'ASP di Trapani come specialista di neuropsichiatra infantile, psichiatra, psicoterapeuta di gruppo analista ed è presidente '' in coming '' del Lyons Club di Trapani. 

Avuta la parola, prima di entrare nel tema della serata, ha ringraziato l'Associazione per l'invito a relazionare, che peraltro ha accettato di buon grado, ed ha premesso che avrebbe affrontato l'argomento dal punto di vista letterario sulla base di alcuni spunti tratti dalla stessa.

Si riporta di seguito ed integralmente quanto riferito dal Dott. Geraci perchè gentilmente reso disponibile per essere inserito nel sito dell'Associazione.


'' Desidero presentare il tema proposto per questa serata, non entrando nello specifico tecnico psicologico, ma prendendo in prestito dalla letteratura alcuni spunti che ci permettano così di stare nella tematica con un pizzico di leggerezza.

Il termine sicilianità, che caratterizza quell'insieme dei caratteri attribuiti all'uomo di Sicilia, venne da Leonardo Sciascia definita anche sicilitudine e cioè: “La sostanza di quella nozione della Sicilia che è insieme luogo comune, idea corrente, e motivo di univoca e profonda ispirazione nella letteratura e nell'arte.”

La nostra identità, considerando che l’uomo attinge dalle proprie condizioni contestuali, nasce anche dalle stratificazioni storiche che il passaggio di molte dominazioni: punica, greca, romana, bizantina, araba, normanna, sveva, francese, spagnola e poi italiana, hanno depositato transpersonalmente, nel carattere e nella mentalità degli abitanti della trinacria, determinando aspetti identitari molto forti.

Proprio per questa specificità storica, legata all'arrivo di diverse civiltà conquistatrici, Tomasi di Lampedusa fa dire al principe di Salina: “Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il là.”

In queste parole sembra racchiusa la delusione dello scrittore per l'incapacità propria dei siciliani di reagire al torpore in cui sembrano caduti da secoli.

Ciò giustificherebbe la tendenza, spesso diffusa, nel gestire male la cosa pubblica e la difficoltà a reagire attivamente alle difficoltà.

Sostiene Manlio Sgalambro che “…il sentimento insulare è un oscuro impulso verso l'estinzione. L'angoscia dello stare in un'isola, come modo di vivere rivela l'impossibilità di sfuggirvi come sentimento primordiale… poiché ogni isolano non avrebbe voluto nascere, egli vive come chi non vorrebbe vivere.”

Giovanni Falcone scrisse: “…Noi abbiamo avuto cinquecento anni di feudalesimo. Se ci si rendesse conto che il siciliano è prima di tutto siciliano, poi medico, avvocato o poliziotto, si capirebbe già meglio.”  

Lo storico Fernand Braudel, ha definito la Sicilia continente in miniatura, microcosmo che accoglie in forme miniaturizzate, ma nette, l'eredità di una storia lunghissima e complessa.

Lo scrittore e uomo di cultura ragusano, Gesualdo Bufalino, grande conoscitore della Sicilia e della sicilianità, nello scritto “L'isola plurale”, ha delineato più di ogni altro le caratteristiche fondamentali dei siciliani, il carattere e le tendenze, causate da ragioni storiche, climatiche e insulari.

Dice tra l’altro: “ Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell'angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale; una che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato delirio... “                                           
Tante Sicilie, perché?

“Perché la Sicilia ha avuto la sorte di ritrovarsi a far da cerniera nei secoli fra la grande cultura occidentale e le tentazioni del deserto e del sole, tra la ragione e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione. Soffre, la Sicilia, di un eccesso d'identità, né so se sia un bene o sia un male. Certo per chi ci è nato dura poco l'allegria di sentirsi seduto sull'ombelico del mondo, subentra presto la sofferenza di non sapere districare fra mille curve e intrecci di sangue il filo del proprio destino.”

“Capire la Sicilia significa dunque per un siciliano capire se stesso, assolversi o condannarsi. Ma significa, insieme, definire il dissidio fondamentale che ci travaglia, l'oscillazione fra claustrofobia e claustrofilia, fra odio e amor di clausura, secondo che ci tenti l'espatrio o ci lusinghi l'intimità di una tana, la seduzione di vivere la vita con un vizio solitario. L'insularità, voglio dire, non è una segregazione solo geografica, ma se ne porta dietro altre: della provincia, della famiglia, della stanza, del proprio cuore. Da qui il nostro orgoglio, la diffidenza, il pudore; e il senso di essere diversi.  Ogni siciliano è, difatti, una irripetibile ambiguità psicologica e morale. Così come l'isola tutta è una mischia di lutto e di luce. Dove è più nero il lutto, ivi è più flagrante la luce, e fa sembrare incredibile, inaccettabile la morte. Altrove la morte può forse giustificarsi come l'esito naturale d'ogni processo biologico; qui appare come uno scandalo, un'invidia degli dei.”    

“Da questa soperchieria del morire prende corpo il pessimismo isolano, e con esso il fasto funebre dei riti e delle parole; da qui nascono i sapori cupi di tossico che lascia in bocca l'amore. Si tratta di un pessimismo della ragione, al quale quasi sempre s'accompagna un pessimismo della volontà.”

Sempre Bufalino sostiene: “Il risultato di tutto questo, quando dall'isola non si riesce o non si voglia fuggire, è un'enfatica solitudine. Si ha un bel dire che la Sicilia si avvia a diventare Italia (se non è più vero, come qualche savio sostiene, il contrario). Per ora l'isola continua ad arricciarsi sul mare come un istrice, coi suoi vini truci, le confetture soavi, i gelsomini d'Arabia, i coltelli, le lupare. Inventandosi i giorni come momenti di perpetuo teatro, farsa, tragedia. Ogni occasione è buona, dal comizio alla partita di calcio, dalla guerra di santi alla briscola in un caffè. Fino a quella variante perversa della liturgia scenica che è la mafia… Ma non è tutto, vi sono altre Sicilie, non si finirà mai di contarle.”

La scrittrice Francine Prose, in Odissea siciliana, sostiene: “ È facile essere felici in Sicilia, ma è un'operazione che richiede un adattamento biologico oltre che culturale: bisogna imparare a vivere il tempo alla maniera siciliana. “

“L'olivo e l'olivastro” inizia con un abbandono, cioè quello di Gibellina, in cui il protagonista è nato. L'abbandono, che è poi solo un recalcitrante fuggire, un levarsi dal manto di miseria che ricopre il paese dopo il terremoto, è seguito da un viaggio in treno, che piano risale la penisola, e nel suo risalire, scorre tracciando quasi un solco nella memoria, una ferita da cui inizia uno sgocciolare, un raggiare ricordi. Allora il lettore - così come l'autore – viene incalzato da una serie di inesorabili immagini che sfilano davanti ai suoi occhi, pagina dopo pagina, a passo di processione. Ma è con raffinata acutezza che Consolo promuove ad opera letteraria tale collettivo di respiri, immagini, visioni e ricordi: e lo fa togliendo all'Odissea uno dei suoi episodi più cruciali, abbindolato l'autore stesso dall'enorme capacità del mito omerico di sedurre in ogni tempo le menti degli uomini.

“Spoglio, lacero e consunto è infatti Ulisse, dopo l'arrivo da naufrago sull'isola di Scheria, terra dei Feaci. Rimasto senza compagni, quasi vinto dalle furie del mare, è l'uomo più solo del mondo e scivola come un rivolo verso il fondo della dignità umana. La mente sta per toccare le frange del sonno, quando l'eroe multiforme trova rifugio infilandosi tra due folti cespugli nati da un medesimo ceppo, uno d'ulivo e l'altro d'olivastro. Nascono da un medesimo ceppo questi due simboli del "coltivato e del selvatico, del bestiale e dell'umano", dell'attendibile e dell'incerto, quasi a voler significare una diramazione che è congenita nelle cose, come lo è nella ramaglia sotto la quale trova rifugio Ulisse. Biforcazione dunque in due vie, due ramature: quella del rigoglio e della perdizione, quella della baldanza che è nel flutto e della rovina che è nella risacca… Le storie, i luoghi e i personaggi di cui si parla sono quelli di una sicilianità bella quanto folle, e di una Sicilia ricca di sfarzi e splendori decaduti sotto le ceneri di tante città, tante Ilio distrutte dalla piaga bestiale presa dall'uomo che le abita. Così è il racconto della Milazzo nella cui piana fiorente pascolavano (secondo una tradizione che va da Timeo a Ovidio, a Plinio, ad Appiano) le vacche del Dio Sole, ma che viene soffocata, a partire dagli anni cinquanta, dalla raffineria. "Sulla piana dove pascolavano gli armenti del Sole, dove si coltivava il gelsomino,    è sorta una vasta e fitta città di silos, di tralicci, di ciminiere che perennemente vomitano fiamme e fumo, una metallica, infernale città di Dite che tutto ha sconvolto ed avvelenato: terra, cielo, mare, menti, cultura."

E non posso tralasciare la mia Palermo da questo florilegio di sicilia, e riporto per ciò  un breve scritto del 2017 di Gaetano Basile: “I vicoli del centro storico sono il regno dell’opera dei pupi. Spettacolo per eccellenza legato alla tradizione popolare: i Paladini di Francia con Carlo Magno, Orlando e Rinaldo, la bella Angelica, Astolfo e l’Ippogrifo hanno fatto sognare generazioni di siciliani con le loro avventure.              

Il Teatro dei pupi fu il luogo dove i sentimenti che travagliarono l’animo di un popolo vennero rappresentati da un «pupu» che non costituì soltanto l’oggetto del divertimento, ma arrivò a simboleggiare il bisogno di giustizia, la rabbia dell’oppresso, la voglia di riscatto. Il pupu poteva parlare dei problemi reali, l’uomo no! I pupari continuano a usare un loro stile nel modo di manovrarli e farli combattere, un mestiere da figli d’arte fatto di regole ereditate…”

 “Malgrado la tivvù. Ma che Sicilia si vede? Quale Palermo? In primis il Palazzo di Giustizia, l’aula bunker, il Palazzo Reale (ribattezzato “dei Normanni” dai primi beceri onorevoli) ed i soliti scioperanti che lì davanti protestano. Per il lavoro, la casa, l’assistenza ai disabili, le scuole ecc.                                                                      
Le scene vanno riprese attorno alle 10 del mattino quando ci sono anche i ritardatari, e pure perché, un’ora dopo, si piazza il panellaro con la Lapa a norma Haccp.           

Più tardi, attorno alle 13, si nota un discreto lavorio sul cellulare per sapere se la pasta è pronta. Poi, tutti a casa: ci vediamo fra otto giorni. 

Non si contano i programmi che parlano del nostro mare (solo da noi così bello), del mandorlo in fiore a gennaio (che solo da noi...), dell’Etna che si esibisce per i turisti con scenografiche eruzioni … Non diciamo che il nostro mare è inquinato, le coste deturpate dall’abusivismo e le spiagge sono delle pattumiere. Però c’è il nostro sole (che solo noi abbiamo) con cassata e fichidindia che guai a chi ce li tocca… Commuovono gli sbarchi dei «nivuri» e le accoglienze affettuose anche se poi li spediamo in lager dai nomi o acronimi fantasiosi mentre le ragazzine finiscono sul marciapiede. Se vogliamo parlare di cultura dobbiamo aspettare Montalbano e le sue indagini. Un mondo che non esiste più, con gente che non parla più quella lingua, non si comporta più a quel modo e soprattutto non mangia le cose buone che a Montalbano ammanniscono. I giovani volenterosi vanno via. Perché allontanarsene è un bene. Una volta salpati, liberi dai miti che ci affliggono, possono andare ovunque grazie al nostro Dna che ci consente di trovarci bene in qualsiasi posto. Ci salva il nostro spirito. Purtroppo, noi viviamo di memorie. Le rispolveriamo davanti a una granita di caffè con panna, quando ci raccontiamo le imprese eroiche dei nostri avi; ed a forza di raccontarcele le facciamo diventare quasi vere. Palermo è oggi, per i palermitani, una città da cui fuggire. Ce lo ricordò già nel 1966 Edmonde Charles-Roux con «Oublier Palerme». «La mémoire c’est l’enfer» è la conclusione di quel libro.”

Restando sul “culturale” prendo a prestito da un blog di cucina questa deliziosa ed ironica (quanto vera) descrizione delle caratteristiche siciliane.

“Senza cadere nei luoghi comuni o comunque tenendosi in equilibrio sul filo della banalità descrivere il carattere dei siciliani non è cosa semplice, se c'è una cosa che li caratterizza praticamente tutti è che sono permalosi. Permalosi, focosi, ombrosi, schivi. Le probabilità che finisca a schifìo per un nonnulla sono altissime. Spinosi insomma, non si sa mai come prenderli. Se li blandisci si sentono presi in giro... “chi mi stai pigghiannu pu’ culu? “

Se ironizzi sui loro comportamenti finisce a schifìo, se li ignori finisce a schifìo, se non ti comporti come loro vorrebbero che tu ti comportassi si sentono mancati di rispetto e finisce a schifìo. Insomma come la metti metti finisce sempre a schifìo. Però se sei loro ospite allora ti apriranno la loro casa, il loro cuore, la loro dispensa senza pretendere nulla in cambio se non manifestazioni esagerate d'affetto. Non ve ne uscite mai con uno striminzito "grazie per l'ospitalità" sembrerà una mancanza di rispetto, ma profondetevi in ringraziamenti dal più profondo del cuore, siate prodighi di riconoscenza, promettete amicizia eterna e se proprio dovete fare un regalo per contraccambiare che sia assolutamente adeguato.

Niente regali simbolici, niente mazzolini di fiori, piuttosto una corbeille piena piena in modo che tutto il vicinato possa dire...” miiiii chi regalu ci ficiru!” (accipicchia, che bel regalo) si perchè il siciliano è grande, grande in tutto e una cosa sola lo atterrisce: la mala fiùra.

Non sia mai che qualcuno dica che ha fatto una cattiva figura...mai e poi mai se non si sentirà adeguatamente ricambiato se ne ricorderà per anni, se a sua volta non si sarà sdebitato a dovere se ne ricorderà per anni e tramanderà il ricordo alle generazioni future. Insomma spinosi fuori e dolci dentro. Proprio come i fichi d'india dell'Etna . Il formaggio ragusano DOP poi è piccante, pungente, direi quasi arrabbiato se stagionato a dovere, si scioglie in bocca ed è focoso, caldo, salato e sa di selvatico. Insomma è schivo e selvaggio come i siciliani.”

Desidero concludere e lasciare la discussione aperta a tutti noi, prendendo a prestito ancora un brano dall’Odissea che ha riportato nel suo libro “Dal vulcano al caos” la scrittrice francese  Édith de la Héronnière:"...eccomi a bordo ... sola per un tragitto antichissimo seguito dai crociati e dai trovatori, dai saggi e dai pazzi che partirono per l'Oriente via mare facendo scalo in Trinacria all'andata e talvolta al ritorno ... Ulisse ed i suoi compagni fra tutti i pericoli che li attendevano dovettero affrontare le sirene al largo della Sicilia. La minaccia stava nella loro voce ammaliatrice e nei prati fioriti della loro isola , la cui estrema dolcezza racchiudeva una seduzione malefica per quegli uomini rudi e sfiniti. Nessun pericolo era maggiore di quei canti armoniosi destinati  a far dimenticare loro la rotta. Ulisse, seguendo i consigli della maga Circe, fece ricorso alla cera per tappare le orecchie dei suoi compagni, poi si fece legare saldamente all'albero della nave . Riuscirono così a continuare il loro viaggio sull'acqua sordi al richiamo delle sirene,sordi sopratutto all'ordine che avrebbe potuto impartire il loro comandante, legato al ponte: quello di accostare e di gettare l'ancora. L'altro pericolo sull'isola erano i buoi di Elios. La maga aveva consigliato ad Ulisse di non attraccare alla costa siciliana. Ma se non poteva fare altrimenti non avrebbe dovuto maltrattare i buoi del dio la cui collera sarebbe stata terribile. "...Se penserai al vostro ritorno potrete raggiungere Itaca ... senza avere toccato i buoi del dio, altrimenti la sua collera sarà distruttiva, se penserai al vostro ritorno..." 

Tenere la propria metà ben chiara, quando "si passa per la Sicilia", permette di evitare di lasciarsi ammaliare e quindi non sapere più cosa fare. La Sicilia quindi, come terra che ammalia e distrugge, questo sembrava volere sostenere fin dall'antichità Omero nella sua Odissea. '' 

Alla relazione ha fatto seguito l'apertura di un interessante dibattito cui hanno partecipato molti dei presenti che oltre a fornire altri spunti di riflessione e discussione hanno chiesto al relatore ulteriori precisazioni e chiarimenti ai quali lo stesso ampiamente ha risposto.


Concluso il dibattito, il Prof. Valenti, dopo averlo ringraziato a nome dell'Associazione ed a ricordo della serata, ha offerto al Dott. Geraci il libro '' 33 Cunti '' di E. Milana e quello di cui è autore '' Matrimonio - Usanze e Costumi antichi e recenti in Provincia di Trapani ''.

Prima di chiudere la serata e dello scambio dei saluti, il Prof. Valenti ha ricordato ai presenti i seguenti appuntamenti:
- sabato 17 giugno 2017 alle ore 18.00 nei locali dell'Associaciazione l'incontro con il Dott. Bica, ultimo evento del programma prima della chiusura per la sosta estiva;
- domenica 18 giugno 2017 alle ore 12.30 nei locali del ristorante '' Grotta Perciata '' in località Bonagia, da raggiungere con mezzo proprio, il '' Pranzo di buone vacanze '' per partecipazione al quale dovrebbe essere effettuata per tempo ed l più presto la relativa e necessaria prenotazione. 


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