2012 - 03 - 08 : Prof. Michele Russo - I giochi fanciulleschi di una volta: dal gioco nella vita alla vita nel gioco - Festa della Donna


   Auguri a tutte le Donne per

 la loro festa!


 Giovedì 8 marzo 2012 alle ore 18.00 nella sala delle riunioni ' Antonio Buscaino ' dell'Associazione per la Tutela delle Tradizioni Popolari del Trapanese sito in Trapani via Vespri 32 con la partecipazione di un numeroso gruppo di soci ha avuto luogo l'incontro con il Prof. Michele Russo cui ha fatto successivamente seguito un piccolo intrattenimento ricorrendo anche nella giornata la ' Festa della Donna '.

Il relatore, già Dirigente scolastico, cultore delle tradizioni locali ed anche socio dell'Associazione, è stato accolto dal Presidente Prof. Salvatore Valenti che dopo averlo brevemente presentato gli ha ceduto la parola. 

Il Prof. Russo ha ringraziato i presenti per l'accoglienza avuta, per aver voluto partecipare così numerosi all'incontro e dopo aver rivolto alle donne presenti un breve augurio ha iniziato a svolgere la sua relazione che è stata accompagnata dalla proiezione di varie diapositive.

Per gentile concessione del Prof. Michele Russo si riporta integralmente quanto da lui detto e le immagini proiettate nel corso della sua esposizione.

' I giochi fanciulleschi di una volta: dal gioco nella vita alla vita nel gioco'.

Parlare del gioco, soprattutto dei giochi fanciulleschi di una volta, non è cosa molto semplice.
Su questo argomento si sono tenuti seminari, convegni e dibattiti ed illustri studiosi hanno versato fiumi d’inchiostro.
Sulla sua valenza educativa e formativa si sono occupati e si occupano pedagogisti, psicologi e sociologi.
Il gioco ha anche suscitato e suscita ancora l’interesse di parecchi etnologi, linguisti, studiosi di tradizioni popolari sia stranieri che italiani.
I giochi fanciulleschi sono stati oggetto di attenzione anche da parte di scrittori antichi. Il poeta latino Orazio in alcune sue satire ci fa direttamente sapere sui trastulli infantili romani e lo storico Svetonio, oltre alla Vita dei dodici Cesari, ha scritto un libro in cui parla dei giochi dei bambini greci.
In tutte le letterature, infine, abbiamo ricordi di giochi.
Anche se non ho fatto studi ad indirizzo pedagogico e  quelle poche nozioni che so sul gioco li ho appresi durante la preparazione per il concorso a preside, vediamo, per somme linee, di dare una definizione di cosa sia il gioco veramente, assumendo alcuni concetti fondamentali.
Possiamo iniziare il nostro discorso con l’affermare che i giochi fanciulleschi, in modo particolare quelli di una volta, sono una cosa molto seria.
Infatti scriveva il Pitrè, nel 1883, nel suo libro sui Giochi fanciulleschi siciliani: “Il gioco è l’espressione del carattere dell’infanzia, l’atto spontaneo onde il bambino più completamente si rivela. Ogni bambino gioca perché ha da giocare, essendo questa la sola attività spontanea a lui concessa; dove egli non giochi, o è malato, o è un bambino troppo vecchio di senno, che è quanto dire un mostro.”
Federico Fröebel, eminente pedagogista tedesco (1782 – 1852) nelle sue Massime per l’educazione della prima infanzia sostiene che: “[…] Il gioco è la manifestazione più pura e spirituale del fanciullo e, assieme alla immaginazione, è il modello della complessiva vita umana, dell’intima segreta vita naturale nell’uomo.[…] Esso procura gioia, libertà, contentezza, tranquillità in sé e fuori di sé, pace con il mondo. Le fonti di ogni bene risiedono in esso e da esso sgorgano.”
Un altro pedagogista tedesco, esperto di fenomenologia, Eugenio Fink (1905 – 1975) afferma: “Falsamente il gioco viene posto solo accanto ad altri fenomeni della vita […] Esso sta per così dire di fronte ad essi per comprenderli in sé, rappresentandoli. Noi giochiamo il serio, giochiamo l’autentico, giochiamo la realtà, il lavoro e la lotta, giochiamo l’amore. E giochiamo perfino il gioco.[…] Il gioco pervade la vita umana […] in esso si rispecchiano i grandi contenuti della nostra esistenza: il gioco li abbraccia tutti.”
D’altra parte, per Federico Schiller: “ […] l’uomo gioca solo quando è uomo nel pieno significato della parola ed è completamente uomo solo quando gioca […].”
Queste affermazioni fanno capire come l’attività ludica svolga un ruolo importante e direi determinante nello sviluppo e nella formazione della personalità e nella vita stessa del genere umano, da fanciullo ad adulto.
Naturalmente ogni periodo della vita è caratterizzato da un proprio tipo di gioco.

Negli adulti il gioco è un modo di evadere dalla realtà quotidiana, frenetica e qualche volta asociale.
Si sente il bisogno, da parte di uomini e donne, di riunirsi o presso una associazione o a casa di qualcuno per giocare a carte, o in un circolo per una sfida a bigliardo, o nei campetti di gioco per la  partitella a calcio o a bocce, ma sempre in gruppo.
Il gioco per l’uomo adulto è catarsi, liberazione, evasione, una cura piacevole allo stress della vita.
Nei giovani, invece, è un mezzo di aggregazione, uno stare assieme per trovare degli amici e, qualche volta, il ragazzo o la ragazza della propria vita.
Molto complessa, però,  è l’attività ludica nel periodo dell’infanzia: è gioco nella vita ed è vita nel gioco.

 





 

 

Ma quanto diversi i giochi fanciulleschi di oggi da quelli di una volta!

Allora, ipiù fortunati giocavano col triciclo, col cavallo a dondolo, con la bambola, col calessino e un cavallo di carta pesta. I meno fortunati con una palla di carta o una bambola di pezza rudimentale realizzata con vecchi stracci date dalle mamme.
Tuttavia, anche se oggi i bambini hanno moltissimi giocattoli, la loro vita emotiva si è impoverita, perché spesso mancano di significative e reali esperienze ed avventure che contribuiscono ad un sano sviluppo psico e sociale.

Mi sono spesso chiesto, infatti, se i bambini di oggi sono capaci di ricavare da un gioco virtuale, usando una playstation o un computer, le stesse emozioni che ricavavamo noi, loro coetanei di un tempo, quando giocavamo utilizzando strumenti ludici rudimentali, di nessun conto, ma ricchi di tanto fascino, facilmente reperibili in casa (stracci, vecchie pentole, rocchetti di legno per filo da cucire, bottoni, antiche monete, lattine, pettini, …) o addirittura per strada (pietre, stecchi, tappi di bottiglia, …) coi quali si ricavavano “palle di carta”, “pupe di pezza”, strumenti musicali, telefoni, trampoli, carri armati, e le ragazzine giocavano a “regina reginella '', ''acchiapparedd(r)a'',  a “madama Dorè”, a “palla avvelenata”, al “gioco della corda”, a “peri zoppu”,  mentre i maschi giocavano con i birilli, a “u quadrettu”, a “cinqu petri”, “cu piriu”, a “fussetta”, a “i quattru cantuneri”, ai “sciappedd(r)i,    “ca carriola”, “cu circhiu”, “ca’ freccia”, o a “cavadd(r)u”, oppure a “biviri chi mi nni vegnu” e ad altri giochi di gruppo.(1)
                      
Tutti questi giochi aiutavano i bambini a crescere: essi imparavano a relazionarsi gli uni con gli altri o a trovarsi degli amici che sarebbero rimasti tali per tutta la vita.
Inoltre, giocando, imparavano a familiarizzare con cose svariate, forme, colori, suoni, numeri, e contemporaneamente imparavano ad esercitare la loro vita, riproducendo tutto ciò che vedevano, ma soprattutto imitando atti, gesti,  occupazioni degli adulti.

E così le ragazzine, giocando a fare la massaia anche con una cucina per bambole o portando a spasso una bambola in una carrozzina,  imitando i gesti delle loro madri, imparavano a diventare donne,  mogli e madri; i maschi, costruendosi i loro giocattoli,
apprendevano i primi elementi dei mestieri ed imparavano ad amare il lavoro.
Tali giochi s svolgevano per lo più all’aperto, nei cortili, nei vicoli, nei campi e, laddove esistevano, nei giardini pubblici, ma solo la strada, grande madre magnanima, prima che il proliferare di automobili e motorini la rendesse caotica e pericolosa,  apriva le braccia e in essa
fanciulli e giovani di tutte le età e di tutti i ceti trovavano rifugio, spazio, sfogo alla loro voglia di crescere, giocando a giochi semplici, anche se talvolta spericolati, eppure tanto divertenti che la vita moderna ha cancellato, ma che a me e, credo, a tutti quelli della mia età, che, come me li hanno vissuti, tanta gioia e tanta vitalità hanno dato.

Era la nostra vita e quei giochi erano la nostra vita, ma erano anche lo specchio della nostra vita e possiamo affermare che parte degli aspetti del modo di vivere di un passato dell’umanità, che non ha storia scritta, si trova documentata in alcuni aspetti di questi giochi infantili.
E così, mentre i nostri nonni e i nostri genitori ci tramandavano antiche filastrocche e i loro giochi tradizionali, ci trasmettevano e facevano sopravvivere anche usi, abitudini, tradizioni, avvenimenti di cui abbiamo vaghi ricordi o di cui si sono perse le tracce, attività primitive, rurali, pastorali, leggi, riti religiosi, ricordi di arte magica, antiche preghiere o scongiuri, o anche antiche canzoni o madrigali, valori diversi ma anche testimonianze di uno stato sociale.(1)
Era la vita che diventava gioco.
A questo proposito voglio soffermarmi su una filastrocca per fare la “conta” usata dalle ragazze e su un gioco che noi maschi eravamo soliti fare.
La filastrocca della “conta” è la seguente:

Bim, Bum, Ba,
La maestra me le dà
Me le dà con la bacchetta
Santa croce benedetta.
Uno, due ,tre.
Fuori.

Era una filastrocca molto semplice che le ragazzine solevano fare per la “conta”, per stabilire che doveva “uscire”, cioè pagare la penalità nel gioco, ma quanto piena di significato e di valori!
Nel primo e nell’ultimo verso ci sono delle sillabe e dei numeri, lo scopo dell’andare a scuola: leggere, scrivere e far di conto. Lo scopo della povera gente, che desiderava che i loro figli non fossero umiliati dalla loro “ignoranza” e vedeva nell’alfabetizzazione il miglioramento sociale  ed economico dei loro discendenti, il riscatto del loro stato servile, quasi una realizzazione del motto latino “Fac sapiens et liber eris” istruisciti e sarai un uomo libero. Tutto ciò può avvenire con l’aiuto della maestra, che è posta nella parte centrale della filastrocca. Ma è una maestra rigorosa, che pretende, che punisce quando non si studia, che dà bacchettate sulle mani. Quello studio diventa una croce che bisogna sopportare, perché è il mezzo del loro riscatto, e quella croce è sacra come è stata sacra per il Cristo che, attraverso di essa, ha riscattato il genere umano oppresso, umiliato, asservito. Pertanto nessun alunno, nessun genitore avrebbe mai pensato, non dico osato, come purtroppo assistiamo in tempi recenti, di andare a rimproverarla per quella punizione inferta. Quella croce e, di conseguenza, quella maestra sono anzi benedette.
Cinque versi, ma c’è tutta una mentalità di una gente “ignorante”, ma buona, rispettosa del lavoro che gli altri fanno con etica professionale, con autorevolezza, anche se ad un primo giudizio potrebbe sembrare severità.
Oggi, invece,……..
Invece, il gioco maschile, su cui voglio richiamare la vostra attenzione, si chiama a “trì trì”, conosciuto nella lingua italiana come il gioco della cavallina. Esso  si svolge nel modo seguente:
Si faceva innanzi tutto la conta per stabilire chi dovesse stare “sotto”. Chi veniva designato dalla “conta”, posizionandosi nel mezzo della strada, si piegava mettendo le mani sopra le ginocchia. Tutti gli altri saltavano a turno, appoggiando le mani sulla schiena del compagno. Durante la rincorsa i concorrenti ripetevano la seguente filastrocca:


E trì trì
Quattro fimmini e un tarì
U tarì è troppu pocu
Quattru fimmini e un piccocu
U piccocu è troppu azzenti
Quattru fimmini e un serpenti
U serpenti havi a cura
Quattru fimmini e ‘na mula
A mula jetta cauci
Quattru fimmini e ‘na fauci
A fauci havi u pizzu
Quattru fimmini e un rizzu
U rizzu havi i spini
Quattru fimmini e i ‘add(r)ini
I add(r)ini hannu l’ali
Quattru fimmini e un canali
U canali pòjtta acqua
Quattru fimmini e ‘na vacca
A vacca havi i còjnna
Quattru fimmini e ‘na ronna
A ronna acchiana e scinni
E bbìcchiti e bbàcchiti ci fannu li minni.

Ricordo che la filastrocca di questo gioco mi è stata chiesta da un’insegnante elementare di un mio plesso perché voleva ricordare ai suoi alunni alcuni giochi di una volta e dei quali suo padre le  parlava quando era ragazzina.
Dopo un po’ l’insegnante, tutta contenta, mi venne a dire che aveva presentato la filastrocca agli alunni. Io  le chiedo se gli alunni l’avessero capita, dal momento che nelle famiglie non si parla più il siciliano. Lei mi risponde che l’aveva tradotta in italiano spiegandone il significato. Io, preso da curiosità, chiedo come facesse in italiano e lei mi dice:

A tre a tre
Quattro donne e un centesimo
Il centesimo è troppo piccolo
Quattro donne e un albicocco
L’albicocco non è maturo
………………………….
Man mano che parlava, mi si drizzavano i capelli e quei pochi, che avevo ancora scuri, mi diventavano bianchi.
Come aveva potuto distruggere una pagina di storia, di civiltà, di costume, una pagina di vita della nostra terra, la vita stessa di un “vidd(r)anu?
Poi mi sono calmato e ne ho dedotto che poteva, perché, in vita sua, non aveva mai parlato in siciliano: Non sapeva neanche leggere correttamente quello che aveva tentato di tradurre.
Quale a tre a tre!
 Quel trì trì è una voce onomatopeica: è il canto incessante, monotono di un grillo, come monotona  è la vita di un contadino che, “agghiorna e scura”, ripete sempre lo stesso ritmo di vita, e li quattru fimmini non sono donne, sono le quattro stagioni dell’anno che scandiscono le attività di questo contadino, che, alla fine di tanto lavoro, si ritrova con niente, un tarì, la moneta più piccola del Regno di Sicilia, troppo poco per sfamare una famiglia. Ci resta solo un frutto, il frutto della terra, il frutto del piccolo campicello che il padrone gli aveva concesso per il sostentamento della sua famiglia e che lo aiuterà a passare le quattro stagioni, ci resta il grano che tiene  “na lu cannizzu”, ma è un “fruttu amaru comu quannu si mancia un limiuni zubbu chi ci fa ‘nzurriari tutti li renti”, e c’è il serpente, l’incertezza, ma anche la maldicenza, che si nasconde “’nmezzu a li tuffuna”, fra le zolle, e ci sono tutti i pericoli per un cattivo raccolto “ ‘na mula fausa che jetta cauci”, che quando meno te lo aspetti si ribella e scalcita, c’è una “fauci chi havi u pizzu”, una falce, che da strumento di lavoro e di vita, si trasforma in strumento di morte, c’è “u rizzu chi havi i spini”, ci sono le intemperie atmosferiche, c’è tutta una vita di stenti, di fatiche, di privazioni dei nostri contadini, degli “annalori”, gli operai pagati ad anno; ma c’è una cosa stupenda che chiude la filastrocca. È negli ultimi tre righi: “quattru fimmini e ‘na ronna / a ronna acchiana e scinni / bbìcchiti e bbàcchiti ci fannu li minni”.
In quella vita di stenti c’è una donna, la propria moglie. Può essere gelosa, possessiva, metteteci tutti i difetti che volete, ma è ‘na ronna che l’aspetta per tutte le stagioni, che gli va incontro, che gli fa un sorriso, una carezza, una donna per la quale vale la pena di soffrire, “ ‘na ronna ch’acchiana e scinni”, che si muove festosa nella stanza, una donna che è il simbolo della bellezza interiore e della gioia della famiglia, una “ronna chi havi li minni”.
Non è un’immagine pornografica, come l’immagine della televisione che, per pubblicizzare l’ultimo modello di airbag, soffice, sicuro, confortevole, deve, per forza, mettere in mostra due schifosi seni, a palloncino, gonfiati di silicone.
Anche se prolassati, non sono seni freddi, ma due seni caldi “sunnu du minni chini di latti” che hanno dato la vita, che hanno allattato i figli.
La “ronna” diventa “matri”.
E la madre, come la moglie, come i figli sono le tre “cose” per cui vale la pena di vivere, di passare la vita in mezzo a tante incertezze, tante delusioni talvolta.
E questa donna si muove freneticamente, “acchiana e scinni, mentri bbìcchiti e bbàcchiti ci fannu li minni”.
Si sente quasi il rumore di questo latte che si muove come passando da un seno all’altro, come fa l’acqua quando viene versata “du bbìcchi e bbàcchi, lu bùmmulu cu lu codd(r)u pirtusatu” e quando l’acqua passa attraverso i buchi di quella lamina di argilla posta all’interno del collo del recipiente produce un rumore che fa bbìch bbàch, bbìch bbàch”.
Quell’acqua versata da quel semplice recipiente di argilla e che porta sollievo agli agricoltori stanchi, sudati, accaldati dal sole, è una melodia ancestrale, una sinfonia che porta la vita.
Così quel latte, che si sente sballottolare da un seno all’altro, è il segno evidente della vita che scorre, che scorrerà in altre creature.
  La descrizione di questa donna è una bellissima immagine di “Madonna”; da paragonarsi a quella della dea Magna Mater, la Grande Madre, conservata al Museo Archeologico di Siracusa, raffigurata nell’atto di allattare due neonati che tiene stretti fra le sue braccia, o a quella dell’immagine della dea Iside che allatta il figlio Horus, o all’immagine della Madonna del latte meglio conosciuta come Madonna di Custonaci, padrona di Erice, che tiene al seno il bambino. Sono tre donne e sono una solo entità: la Grande Madre, simbolo della gioia, della vita, della famiglia!
Quale traduzione in italiano poteva darci la bellezza di questa immagine poetica di donna!(2)
Quale traduzione poteva farci capire che quella filastrocca da noi ripetuta, “senza coscienza”, durante il gioco  era lo specchio di un tenore di vita, era il grido di un proletariato oppresso, ridotto quasi a servo della gleba, ma saldo nei suoi affetti, nel concetto sacro della famiglia, era l’apoteosi della donna-moglie-madre!
                                                    
Annotazioni
1.    Parecchi giochi infantili, come quelli del girotondo, della palla, del cerchio, della trottola, della mosca cieca, dell’altalena, del tiro con la fune, dell’aquilone, citati da autori latini e greci, sono risalenti a tempi  antichissimi e sono documentati in varie parti del mondo e si riscontrano sia in Europa, che in Africa, in Oceania e in America.
Fra i giochi in cui sopravvivono usi, riti, credenze, scongiuri, tradizioni, allusioni ad attività rurali e pastorali, leggi o avvenimenti storici, ricordiamo:
•    Il gioco chiamato “a Verra”, alla Guerra, che ricorda presumibilmente l’insurrezione dei Vespri Siciliani del 1282 contro Carlo d’Angiò.
•    Il gioco chiamato “a li quattru cantuneri”, “ a la Rocca”, ha sicuramente reminiscenze del diritto di asilo che, anticamente, le chiese, i conventi e i castelli feudali, che godevano dell’immunità, potevano dare al popolo.
•    Il gioco “u piriu”, la trottola, ci riporta a dei riti magici che i contadini erano soliti fare nei loro villaggi facendo girare delle grandi trottole per ricavarne, dal movimento, i pronostici per il futuro.
•    Il gioco di “Testa o croce” può essere collegato all’usanza di gettare in aria una moneta allo scopo di indovinare quale sorte dovesse toccare ad uno. Gioco che i Greci chiamavano astiazein ed i Romani caput aut navis , per il fatto che la moneta aveva, originariamente, da un lato la testa di Giano e dall’altra il rostro di una nave.
•    Il gioco  “ai quadretti” o, come viene riportato da altri, “da campana” o “al Paradiso”. Durante le belle giornate si tracciavano a terra, con un pezzo di carbone o di gesso, delle caselle numerate ( sei, otto, dodici) e si lanciava dentro di esse una piastrella e poi vi si saltava con un piede o a piè pari senza toccare le righe. In tale gioco, secondo gli studiosi, sopravvivono ricordi di arte magica, di credenze religiose e di astrologia. Secondo alcuni studiosi le caselle disegnate rappresenterebbero i pianeti o i dodici segni dello zodiaco, la piastrella, che viene lanciata, raffigura il sole che ne visita tutte le “stanze” dell’universo e le illumina colla sua luce oppure l’anima, la quale, partendo dalla terra, arriva alla salvezza, attraverso vari stadi del gioco, simboleggianti stadi valoriali. (Mito di Eracle, culto di Mitra, Cristianesimo).
2.    Una lettura diversa ne ha dato Salvatore Bongiorno con un suo articolo pubblicato in “Paceco cinque”, Ed. La Koinè della Collina, Aprile 2001, pagg.46-48.
3.     Dando una lettura politica dei vari simboli presenti si può interpretare la filastrocca nel modo seguente:
In una situazione di estrema miseria e in una vita di stenti, in cui si dibatte la povera gente, è facile che il malcontento, il serpente, s’insinui pian piano e penetri nell’animo di quelle persone, nate per lavorare, pazienti come il mulo, che, quando sente la soma troppo appesantita, finisce col tirare calci, col ribellarsi. Così quei contadini, stanchi delle antiche servitù e desiderosi di liberarsi dalle oppressioni, dai patimenti, dalla prepotenza, insorgono e sollevano in alto la falce, che, da simbolo di pace, diventa simbolo di morte. E allora la situazione diventa di difficile soluzione, molto spinosa, e finisce che quello stato di tranquillità e di apparente benessere, rappresentato dalle galline, vola via. La rivoluzione esplode in tutta la sua violenza come un fiume in piena e travolge tutto come una vacca e tutti corrono alle barricate, anche le donne. E sono loro le vere agitatrici, le vere guerrigliere, le vere vittime. Le loro mammelle che si agitano freneticamente sul petto sono i loro figli che saltano da una barricata all’altra, che muoiono per assicurare un domani migliore; ma sono anche mammelle che allatteranno altri figli, sono le mammelle della donna proletaria della rivoluzione socialista.

Al termine della relazione è seguito un breve dibattito cui hanno parteciapato molti dei presenti che hanno ricordato altri molti giochi oltre a quelli cui si faceva riferimento nel corso dell'esposizione e che nella sostanza erano giochi semplici ma che tuttavia talvolta contenevano riferimenti etno-antropologici di varia natura.

A ricordo della serata il Prof. Valenti ha fatto omaggio all'oratore di un piatto di ceramica e l'incontro si è concluso con le fotografie di rito.

In coda all'incontro la Presidenza ha ricordato ai partecipanti il viaggio a Palermo del giorno 9 ottobre 2012, anticipato dal giorno 10, la cui partenza è stata fissata alle ore 08.30 da Piazza Stazione.

Per festeggiare le Donne, di cui oggi 8 marzo 2012 ricorre la festa, ed alle quali tutti i presenti hanno fatto gli auguri, l'Associazione ha organizzato un semplice intrattenimento accompagnato dalla esecuzione di alcuni classici brani musicali e da quattro salti come documentato dalle istantanee scattate nel corso della serata e che di seguito si riproducono.

 

 

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