2017 - 02 - 04: Dott. Marco Scalabrino - A racina di Sant'Antoni
Sabato 4 febbraio 2017 alle ore 18.20 nella sala delle riunioni dell'Associazione per la Tutela delle Tradizioni Popolari del Trapanese sita in Trapani via Vespri 32, con la partecipazioe di un numeroso gruppo di soci, di simpatizzanti e di ospiti che hanno gremito la sala si è tenuto il settimanale incontro previsto dl calendario del XXXI Corso di cultura nella ricorrenza del 35° anno dalla fondazione.
Tema della serata la presentazione del saggio '' Alessio Di Giovanni - La racina di Sant'Antoni '' di Marco Scalabrino.
Aperti i lavori della serata il Prof. Valenti, Presidente del sodalizio, ha ringraziato i presenti in sala fra i quali la Prof.ssa Marisa Di Giovanni, nipote di Alessio Di Giovanni venuta appositamente da Firenze con il marito, il Prof. Eugenio Giannone, conferenziere e saggista venuto appositamente da Cianciana, il Prof. Salvatore Vecchio studioso di letteratura siciliana già relatore in un precedente incontro sull'opera omnia del Di Giovanni e la Prof.ssa Rosalba Anzalone coordinatrice regionale del '' Progetto LIReS - Lingue, Identità, Ricerca e Sviluppo ), il Signor Alberto Noto ed il Dott. Marco Scalabrino autore del saggio di cui sopra.
Marco Scalabrino, nato a Trapani e socio dell'Associazione, è ben noto agli associati per aver più volte in passato partecipato alle attività culturali del sodalizio. Fra i suoi interessi principali lo studio del dialetto siciliano, la poesia siciliana, la traduzione in Siciliano ed in Italiano di autori stranieri contemporanei, la saggistica ed innumerevoli sono le sue pubblicazioni. Ha collaborato con diversi periodici culturali, cartacei ed in rete, nazionali ed internazionali, ed è stato componente della equipe regionale del Progetto LIReS per lo studio del dialetto Siciliano nella scuola.
Successivamente ha preso la parola il Prof. Eugenio Giannone che dopo un saluto ai presenti si è detto onorato di essere stato chiamato a partecipare all'evento in programma consentogli nel contempo di conoscere l'ATTPT.
Nel suo intervento ha riferito che Alessio Di Giovanni nelle sue opere in siciliano, molte delle quali tuttavia sono state dallo stesso tradotte in lingua per consentirne la comprensione a tutti gli italiani, ha spaziato in molti campi ed argomenti come la zolfara descritta in modo sentito, efficace, con accenti drammatici condividendo la sorte di chi vi lavorava e vi consumava la propria esistenza in quanto nipote e figlio di proprietari di tali miniere, il feudo con la sua sterminata estensione, il francescanesimo, l'arte e la pittura,il giornalismo, la traduzione, la poesia, la narrativa, la drammatizzazione, ecc.
Nato a Cianciana ( AG ) nel 1972 morì a Palermo nel 1946, ma visse anche a Noto, dove faceva il notaio per un certo periodo.
Fra i suoi lavori in prosa si annoverano '' La morte di lu patriarca '' pubblicato nel 1920, la '' Racina di Sant'Antoni '' pubblicato nel 1939 seguito da una ristampa anastatica nel 1998 e '' Lu saracinu '' pubblicato postumo nel 1980.
'' La racina di Sant'Antoni '' è la storia di un ragazzo nato ad Alessandria della Rocca ( AG ) che incontrando casualmente per la strada un superiore francescano entra successivamente in seminario diventando frate con il nome di Prate Mansueto ed essendo molto portato per la pittura realizzerà molti quadri nelle chiese francescane.
In realtà il personaggio di Padre Mansueto è modellato sulla figura di un altro frate famoso ovvero Padre Fedele Palermo Tirrito nato a S. Biagio Platani nel 1717 e morto a Palermo nel 1801.
La lettura del libro, venuto in possesso del Dott. Scalabrino in copia anastatica ha spinto lo stesso ad effettuare una ricerca approfondita delle sue fonti remote e recenti analizzando ciò che su di esso era stato scritto in precedenza ed a pubblicare quindi nel 2016 il saggio presentato nel corso della serata.
Il Prof. Giannone ha quindi concluso il suo intervento ricordando che merito del Di Giovanni è stato quello di svecchiare non solo la poesia siciliana, ma utilizzando il siciliano l'ha fatto assurgere ad una vera e propria lingua che niente ha da invidiare agli altri idiomi considerati le varie opere d'arte cui ha dato origine.
Nell'opera dello Scalabrino molte sono le schede relative a vari argomenti come il corallo, i pittori e la storia della pittura nell'epoca in cui è inquadrato il romanzo e si è augurato che il lavoro del Dott. Scalabrino possa accendere nel lettore l'interesse per Alessio Di Giovanni per capire fino in fondo quanto ha voluto trasmettere con i suoi scritti e porlo per i suoi meriti nel posto che di fatto gli spetta.
Concluso l'intervento il Prof. Valenti ha ringraziato il Prof. Giannone per quanto detto ed ha passato la parola al Dott. Scalabrino di cui si riporta integralmente la relazione nel corso della quale il signor Alberto Noto ha declamato in siciliano alcune poesie del Di Giovanni.
'' Alessio Di Giovanni e La Racìna di Sant’Antoni di Marco Scalabrino
Buon pomeriggio a tutti.
Desidero ringraziare sentitamente il Prof. Salvatore Valenti per avermi cortesemente invitato, nonché gli illustri relatori che mi hanno preceduto: il Prof. Eugenio Giannone, che è venuto per noi da Cianciana (AG), già docente e studioso dell’opera di Alessio Di Giovanni, curatore fra l’altro della ristampa, avvenuta nel 2006, de La morti di lu Patriarca di Alessio Di Giovanni, e la Prof. Marisa Di Giovanni, nipote di Alessio Di Giovanni, figlia di uno dei sette figli che Alessio Di Giovanni e Caterina Leonardi ebbero: Gaetano, il secondogenito,
( Foto 1 ), nonché il signor Alberto Noto, che ha magistralmente letto i testi di Alessio Di Giovanni.
Il Gruppo Alessio Di Giovanni.
Alessio Di Giovanni nacque a Cianciana (AG) nel 1872 e morì a Palermo nel 1946. Ne è appena ricorso quindi, giusto a dicembre 2016, il 70esimo della morte. Per oggettivi motivi anagrafici, dunque, non ho conosciuto di persona Alessio Di Giovanni. Il suo nome, però, mi è ben noto sin dagli anni Ottanta del ‘900, allorchè ebbe inizio la mia frequentazione del dialetto siciliano. Reiteratamente, nell’ambito dei miei studi circa il Rinnovamento della poesia dialettale siciliana, stagione letteraria seguita allo sfacelo della seconda guerra mondiale, mi sono imbattuto nel titolo di un suo lavoro: La Racìna di Sant’Antoni.
“C’è un solo modo di scrivere il siciliano – asseriva Paolo Messina – ed è quello che stiamo sperimentando qui, dopo la lezione di Alessio Di Giovanni, di scrupolo filologico: una scrittura improntata all’etimo e alla consuetudine letteraria”; e indica nel romanzo dialettale di Alessio Di Giovanni La Racìna di Sant’Antoni, del 1939, il modello linguistico da adottare.
Palermo 1923-2011, Paolo Messina fu esponente di spicco, assieme con Ugo Ammannato, Miano Conti, Nino Orsini, Pietro Tamburello, Gianni Varvaro e altri, di “quel nucleo di poeti che comprendeva le voci più impegnate dell’Isola” e che, nella consapevolezza che il suo esempio e la sua lezione erano la via giusta da seguire, nel 1946, alla scomparsa di Alessio Di Giovanni, ne prese il nome e si denominò appunto Gruppo Alessio Di Giovanni”. Ma questa è un’altra storia!
Oggetto del desiderio.
Ciò brevemente detto, il romanzo rimaneva per me un affare misterioso, un oggetto del desiderio. Finché un giorno dell’anno 2013, il responsabile della Biblioteca Comunale “Paolo Borsellino” di Cianciana (AG), il Dr. Mario O. Caramazza, con il quale ero entrato in contatto, con mia grande gioia, mi inviò copia del romanzo.
Procederemo adesso, servendoci anche dell’ausilio di alcune immagini, a tracciare un essenziale excursus del saggio, la cui illustrazione di copertina, La Ràcina di Sant’Antoni, del 2016, ( FOTO 2 ), è opera dell’artista grafica trapanese Vanessa Noto.
Romanzo al quale Alessio Di Giovanni lavorò per diciotto anni, La Racìna di Sant’Antoni, testo in siciliano e traduzione in italiano a fronte, venne edito in Catania, dallo Studio Editoriale Moderno nel 1939 e ristampato poi nel 1998. ( Foto 3 ).
Il rigoglio di studi, che in anni recenti ha investito Alessio Di Giovanni, orientato alla rivalutazione critica e alla diffusione presso le nuove generazioni della sua opera, è da accreditare alla Istituzione Culturale “Alessio Di Giovanni” (costituita nel 2002 in Cianciana, che dal 2003 cura la pubblicazione – undici a oggi i numeri licenziati – dei Quaderni di Studi Digiovannei), nonché alle virtù di studiosi e letterati del calibro di Rosalba Anzalone, Salvatore Di Marco, Eugenio Giannone, Pietro Mazzamuto e altri. ( FOTO 4a - 4b ). Per questi e per parecchi altri studiosi e letterati i molteplici lavori di Alessio Di Giovanni, che hanno riguardato: la poesia, la narrativa, la saggistica, la traduzione, nonché gli aspetti che quei lavori hanno caratterizzato: la natura, il feudo, la zolfara, gli umili, il francescanesimo, il Cristo, l’arte, sia in vita dell’autore sia dopo, hanno formato oggetto di fervido studio.
Ma, chi si è occupato specificatamente de La Racìna di Sant’Antoni? Nel novero degli studi propedeutici alla stesura di questo elaborato, siamo venuti a conoscenza di parecchi apprezzabilissimi articoli e giudizi critici e di taluni di essi ci siamo avvalsi nel corpo di questa esposizione; nessuna, però, indagine minuziosa. Un limitato risveglio d’interesse verso la prosa di Alessio Di Giovanni vi fu nel 1980, quando apparve il testo postumo di Lu Saracinu [Edizioni Il Vespro, in Palermo], pregevolmente commentato da Pietro Mazzamuto. Il medesimo interesse non si manifestò però nel 1998, quando la Provincia Regionale di Agrigento, ripropose in edizione anastatica, La Racìna di Sant’Antoni, del 1939. Quella fu una occasione mancata, a cui gli studiosi non prestarono attenzione, anche perché all’iniziativa non fu data alcuna risonanza.
La storia di una passione.
Alessio Di Giovanni intuì la necessità di non limitare la ricerca sperimentale al solo campo della poesia, bensì di estenderla a tutta la letteratura dialettale, teatro e prosa inclusi, e portò alle stampe alcune opere in prosa guadagnando, così, il merito di avere per primo aperto la strada alla vera e propria narrativa dialettale siciliana del Novecento.
“Un lavoro che conto di fare presto – scrisse Alessio Di Giovanni, nella memoria autobiografica apparsa su Sicilia del 15 novembre 1926 – è La Racìna di Sant’Antoni.” Questo romanzo [è] il primo che venga scritto nella gagliarda e ardente, armoniosa e soave e incisiva lingua di Sicilia.”
Degno di rilevanza il passaggio: “questo romanzo [è] il primo scritto nella lingua diSicilia”, affermazione, la cui portata storica e culturale non sfugge e che non ci risulta sia stata confutata da alcuno.
“In questa Racìna di Sant’Antoni – prosegue il Di Giovanni – ho voluto analizzare un carattere e narrare la storia di una passione. Non la solita passione d’amore per la solita donna ma una passione per qualche cosa di più elevato, di più casto, di più immateriale, di più eterno, di più perfetto: la passione per l’Arte. Ho scritto questo romanzo in siciliano – insiste il Di Giovanni –, per istintivo, irresistibile bisogno di rendere l’intima anima della mia terra, con quella semplicità spontanea e con quella sicura immediatezza che si possono ottenere interamente adoperando il vermiglio linguaggio dell’isola, perché soltanto con il suo corrusco fiammeggiare e con la sua armonia accorata si può dare un’impronta schiettamente paesana alla narrazione”. “Dopo avere scritto il romanzo in siciliano – precisa – ho voluto tradurlo in lingua, nella speranza che possa diffondersi fuor di Sicilia.”
Il Sant’Antoni al centro del romanzo.
Nella determinazione (sopravvenuta alla entusiasmante lettura) di scrivere di questo romanzo, ci rendiamo conto, per la miriade di questioni liberate da quelle pagine (ciascuna meritevole di decifrazione, di storicizzazione, di approfondimento), che è pressoché impraticabile tentarne una sintesi che possa risultare emblematica dell’arcipelago di personaggi e situazioni, di affetti ed emozioni, di città e paesi, di flora e fauna, di colori e odori, di opere e pittori, di chiese, conventi e monasteri, di frati e monaci; emblematica del linguaggio adoperato e delle sue peculiarità, dei rilevanti profili contenutistici e formali, dell’intreccio accurato e impeccabile; emblematica dell’umanità, della genuinità, della dignità di tutta una corte di personaggi fra maggiori e minori, ognuno nella propria individualità;una sintesi, ovvero, emblematica del mosaico caleidoscopico che è stata la Sicilia vissuta, percepita e narrata da Alessio Di Giovanni.
Nell’inoltrarci, riteniamo inderogabile sciogliere un nodo cruciale: chi è il Sant’Antoni, il Sant’Antonio, al centro del romanzo? La Chiesa cattolica annovera una decina di santi con questo nome. Fra loro, indubbiamente, Sant’Antonio di Padova e Sant’Antonio abate sono in Italia e nel mondo fra i santi più conosciuti e venerati. E, in effetti, a uno di loro il Di Giovanni allude. Non lo nomina esplicitamente e, tuttavia, non lesina i ragguagli utili alla sua identificazione E così non fatichiamo, nella parte terza, capitolo quinto, pagina 376, a scovare il passo: Sant’Antoni nun avìa passatu li cincu vintini quannu avìa murutu? (Sant’Antonio non aveva passate le cinque ventine quando era morto?) E quindi il “suo” Sant’Antonio visse oltre cinque ventenni, ossia oltre cento anni. Dei due, Sant’Antonio di Padova, al secolo Fernando Martins de Bulhões (Lisbona, 15 agosto 1195 - Padova, 13 giugno 1231), proclamato dottore della Chiesa nel 1946, morì giovane, all’età di trentasei anni; Sant’Antonio abate, viceversa, detto anche Sant’Antonio d’Egitto, Sant’Antonio del Fuoco, Sant’Antonio del Deserto, figlio di agiati agricoltori cristiani, nacque a Coma (l’odierna Qiman el-Arus), in Egitto, intorno al 251 e morì, nel deserto della Tebaide, il 17 gennaio 356. ( FOTO 5 ). Questi visse dunque circa centocinque anni, ovverosia gli oltre cincu vintini richiamati da Di Giovanni.
Padre Fedele da San Biagio.
Patri Mansuetu (padre Mansueto), il protagonista del romanzo La Racìna di Sant’Antoni, è un frate francescano. Per tale figura, Alessio Di Giovanni si è ispirato al cappuccino padre Fedele da San Biagio, ( FOTO 6 ). Al secolo Matteo Sebastiano Palermo Tirrito, Padre Fedele nacque a San Biagio Platani (AG) il 18 gennaio 1717. Mostrò sin da piccolo una spiccata predisposizione per la pittura e, benché fosse entrato nel seminario arcivescovile di Agrigento, continuò a coltivare le sue doti nel campo dell’arte. Ammesso nel convento dei padri cappuccini di Casteltermini (AG), indossò nel 1739 l’abito monacale e nel 1742 si trasferì nel convento palermitano dell’Ordine, dove, nel 1745, fu ordinato sacerdote. Divenne il pittore ufficiale dell’Ordine cappuccino siciliano e, il 7 febbraio 1786, papa Pio VI gli concesse il titolo di “Padre Provinciale di merito”. Secondo i suoi biografi, nel suo percorso artistico ispirato sempre da intenti devozionali, dipinse centocinquantasei grandi pale d’altare e altre tremila opere di diversa grandezza, sparse nelle chiese e nei conventi cappuccini, soprattutto della Sicilia occidentale, opere delle quali è impossibile dare conto dettagliatamente e proporre una successione cronologica attendibile, dal momento che, in ubbidienza alle norme di modestia francescana, quasi mai egli datava e firmava le sue opere. Ebbe, fra i suoi allievi, il trapanese Giuseppe Errante. Fra i suoi lavori si annoverano l’Autoritratto, risalente al periodo estremo della sua attività, e la tela con Padre Fedele da Sigmaringa, del 1767, per la chiesa dei cappuccini di Alcamo. Nel 1788, padre Fedele diede alle stampe i Dialoghi familiari sopra la pittura difesa ed esaltata, libro, diviso in “giornate” e scritto in forma di dialogo, che è una vera e propria miniera di notizie sulla pittura siciliana del secolo XVIII. ( FOTO 7 ). Morì, a Palermo, il 9 agosto 1801 e il suo corpo si trova nelle catacombe dei cappuccini della città.
In che epoca si colloca la vicenda?
La storia di padre Mansueto è “la vicenda tutta interiore di un individuo che vuole vivere una sorta di perfetta identità tra vita e arte e accogliere l’afflato divino nelle sue creazioni”.
L’autore ce lo presenta già vecchio, ma, con garbo, ne ripiglia la storia, fin da quando, piccolo pastore, si dilettava a imprimere nella molle creta del Màvaro (una delle contrade che si specchiano sulle acque rummulusi e scujeti dell’antico Halycos, l’odierno fiume Platani) le cose che lo colpivano. Quindi l’incontro col Padre Provinciale Innocenzo di Alessandria della Rocca, costretto da un acquazzone a rifugiarsi nella masseria del gnor Domenico, ove il piccolo era garzone. Il Padre Provinciale, presolo con sé, gli apre la via agli studi del sacerdozio e della pittura. L’ambiente del romanzo viene così a essere la vita dei cappuccini; ambiente però aperto a tutta la Sicilia, con i suoi panorami marini e montani, con i suoi latifondi deserti e incolti, con i suoi villaggi e con gli uomini delle sue campagne. C’è pure, sullo sfondo, la storia della pittura siciliana, antica e moderna, con i nomi ben illustrati dei pittori Stom, Lo Forte, Reina, eccetera. E tutto questo mondo non è rappresentato a sé, ma in quanto si incontra via via con la vita del protagonista.
In che epoca – ci chiediamo –, in quali anni si colloca la vicenda della quale stiamo discorrendo? Quasi avesse presagito le nostre domande, Alessio Di Giovanni non si fa pregare e ci risponde senza indugi. Ma, chiaramente, da provetto scrittore qual è, non liquida la faccenda con lo schema sbrigativo “a domanda risponde”. Lo fa alla sua maniera, alla stregua che più gli è congeniale: dissemina, ovvero, il suo romanzo di indizi, di ragguagli, di nessi, così che noi si possa dedurre, progressivamente ricostruire, soddisfare ogni nostro plausibile interrogativo. E allora basta leggere. Nella parte prima, difatti, capitolo quinto, pagina 52, leggiamo ... quannu era ancora vivu lu gran Papa Liuni; e, subito appresso … era cancilleri sò lu cardinali Rampolla. Lu gran Papa e lu cardinali in questione sono rispettivamente da riconoscersi in Papa Leone XIII, al secolo Vincenzo Gioacchino Pecci, e nel cardinale palermitano Mariano Rampolla del Tindaro, suo Segretario di Stato. Soprannominato il “papa sociale” o il “papa degli operai” per la sua attenzione al mondo del lavoro, per il suo intendimento di istituire un ordine cristiano fondato sulla giustizia sociale, nel 1891, Papa Leone XIII promulgò la notissima enciclica Rerum Novarum. Il pontificato di Leone XIII si protrasse dal 1878 al 1903 e in quell’arco di tempo, pertanto, la nostra storia è da collocare.
In cerca di un tozzo di pane.
Secondogenito di Gaetano e di Filippa Guida, Alessio Di Giovanni nasce a Cianciana (AG) l’11 ottobre 1872. ( Foto 8 ). Il padre, Gaetano, 1831-1912, “dovizioso proprietario” delle più “ricche zolfare del paese e di campagne vaste”, studioso di storia locale e del folklore e collaboratore di Giuseppe Pitrè, fu “sindaco integro e austero” di Cianciana dal 1876 al 1884.
Dal 1878 al 1884 il piccolo Alessio frequenta le scuole elementari a Cianciana; terminate le quali, nell’ottobre 1884, segue la famiglia che si trasferisce a Palermo e qui viene avviato alla carriera ecclesiastica sotto la guida di mons. Gioacchino Di Marzo. Dopo otto “anni dolorosi” trascorsi alla Cappella Palatina, nel 1892, non sentendosi affatto vocato al ministero sacerdotale, abbandona però quegli studi e si dedica al giornalismo. “Precipitate le sorti della famiglia”, perduti possedimenti e zolfare, il padre si trasferisce nel febbraio 1893 a Noto, per esercitarvi la professione di notaio. Anch’egli trasferitosi a Noto con la famiglia, sostiene, presso il Ginnasio di Modica, gli esami di licenza e sposa, l’8 giugno 1895, Caterina Leonardi, figlia di Lorenzo e di Eluisa La Rosa. ( Foto 9 ).
Comincia a scrivere, a entrare in contatto con riviste, editori e autori, a pubblicare e in novembre del 1903, e fino al settembre 1904, è a Messina, dove è andato “in cerca di un tozzo di pane” e insegna Italiano nel Real Convitto “Dante Alighieri”. Ottiene l’abilitazione definitiva, per titoli, all’insegnamento della lingua italiana nelle Scuole Tecniche e viene assegnato alla “Scinà” di Palermo, diretta da Girolamo Ragusa Moleti. Passerà poi alla Scuola Tecnica “Gagini” e successivamente alla Scuola Tecnica “Giuseppe Piazzi”. ( Foto 10 ).
Dal 1904 e fino alla morte, Alessio Di Giovanni abiterà a Palermo, tranne che per le guerre, per le malattie e per le vacanze estive. A Palermo pubblica le sue opere e nascono i suoi figli (Caterina Leonardi e Alessio Di Giovanni ebbero sette figli, malgrado il proponimento di lui di mettere punto dopo il quarto): Rosalia, Gaetano, Lorenzo, Vincenzo Francesco, Corrado, Giovanni e Fina. ( Foto 11 ). Il diabete, l’indebolimento della vista, le conseguenze della guerra porteranno Alessio Di Giovanni alla morte il 6 dicembre 1946. ( Foto 12 ). Le sue spoglie riposano nel cimitero di Palermo.
Centenario della nascita.
Di Alessio Di Giovanni si parlò un poco nel 1946 quando morì. Se ne riparlò, senza molti echi, nel 1972 quando Leonardo Sciascia e Ignazio Buttitta ne ricordarono a Cianciana il centenario della nascita. ( FOTO 13 - 14 - 15 - 16 - 17 - 18 ). Se ne era riparlato anche nel 1956 con un fascicolo speciale di Galleria [in quel tempo diretta da Leonardo Sciascia], curato da Giuseppe Angelo Peritore, in occasione del primo decennale della morte. Sono poi trascorsi trent’anni prima che il Centro di Cultura Siciliana “Giuseppe Pitrè” organizzasse il convegno sul tema: Alessio Di Giovanni e la poesia siciliana del Novecento, convegno che si celebrò a Palermo il 5 e 6 dicembre 1986.
Trittico.
Il romanzo prende il nome dalla racìna, dall’uva appunto, che contrassegna l’ultimo quadro che verrà realizzato da padre Mansueto o meglio nel trittico, perché di tre tavole – apprenderemo – stiamo discorrendo. Non vi è, nel romanzo di Alessio Di Giovanni, una descrizione dettagliata del quadro de La Racìna di Sant’Antoni; i rimandi, per contro, non vi difettano. E allora, per quanto desunto, ci è lecito provare a immaginarcelo. ( FOTO 19 ).
Si tratta di un trittico, dunque di tre tavole. Sullo sfondo del deserto avvampato dal sole, protagonisti ne sono l’angelo, dalle grandi ali immacolate, e due santi, che rispondono ai nomi di Sant’Antonio e San Macario. Per pietà l’uno dell’altro e per non profittare egoisticamente del dono fatto a loro da Dio per quietarne la sete, costoro lasciano seccare, tornando continuamente a donarselo, senza mangiarlo, un grappolo d’uva. La struttura a tre elementi non è, ovviamente, messa in discussione; possiamo però, figurarcene, inventarcene se preferite, la distribuzione delle aree e dei soggetti all’interno di esse e anche le loro proporzioni. E pertanto … non gli ortodossi tre lotti verticali, ma tre segmenti, uno che occupa la parte superiore del quadro ed è dedicato all’angelo, le grandi ali bianche come la neve spiegate nel cielo del colore dello stagno (quale diretta emanazione e rappresentazione di Dio, l’angelo, crediamo, debba dominare nella “statura” ogni altro essere e cosa al suo cospetto); gli altri due segmenti inferiori, ad occupare la restante parte del quadro, dedicato ciascuno a ognuno dei due santi: San Macario, nella frazione a sinistra, sessantenne, la faccia magra, gli occhi larghi e fondi, la barba bianca, una vecchia tonaca; Sant’Antonio, nella frazione a destra, centenario, la tonaca cenerina, la barba bianca, gli occhi di fuoco infossati, la faccia arsa e magra, che tiene in mano l’uva, ormai seccatasi.
Il romanzo.
Il romanzo è suddiviso in tre parti: la prima composta da diciassette capitoli e da oltre 150 pagine; la seconda anche essa da diciassette capitoli e da oltre 170 pagine; la terza da quattordici capitoli e da circa 130 pagine, per complessive oltre 460 pagine, in esse ricompresa la versione in italiano. Atteso, come poc’anzi ricordato, che Paolo Messina indica nel romanzo dialettale di Alessio Di Giovanni La Racìna di Sant’Antoni il modello linguistico da adottare, tra le considerazioni su questo volume, è imperativa quella afferente al linguaggio, alle strutture ortografiche, grammaticali, sintattiche, all’individuale stile del Di Giovanni; il quale, dal patrimonio incommensurabile del nostro dialetto, estrae sapientemente voci, espressioni, soluzioni distintive, che contribuiscono ad impinguare il timbro lessicale, ad imprimere agilità dialettica, a dispensare aromi autenticamente siciliani, che concorrono ad esaltarne la dovizia, la nobiltà, la duttilità.
Rimandiamo, pertanto, il lettore all’ordito del romanzo nonché alle notazioni ortografiche, grammaticali e sintattiche rilevate nel saggio. ''
E' intervenuta quindi brevemente la Prof.ssa Rosalba Anzalone per un certo periodo dirigente scolastica a Cianciana, paese natale del Di Giovanni, che ha ricordato il lavoro di ricerca fatto al fine di ricordare Alessio Di Giovanni, personaggio complesso e poliedrico, per gli alunni delle scuole elementari della città per farlo restare vivo e presente per quanto fatto nel corso della sua esistenza. Tuttavia si è augurata che, essendo molto ampia la sua produzione, sarebbe stato opportuno ampliare le ricerche creando un gruppo di lavoro ad hoc con un adeguato piano di sviluppo culturale.
Conclusi gli interventi il Prof. Valenti dopo aver ringraziato gli oratori intervenuti e prima dei saluti di arrivederci a sabato 11 febbraio 2017 alle ore 18.00 nella sede dell'Associazione per il prossimo incontro in programma, a nome dell'Associazione ed a ricordo dell'evento ha donato al Dott. Scalabrino il libro '' 33 cunti '' di E. Milana, alla Prof.ssa Di Giovanni ed al Prof. Giannone i libri '' Lu codici di la santa necessità '' di Berto Giambalvo ( Racconti siciliani trascritti da Franco Di Marco ) e '' Matrimonio - Usanze e costumi antichi e recenti in provincia di Trapani '' di S. Valenti.