2017 - 05 - 06: Prof. Salvatore Bongiorno - Cu tocca un turcu è so

Sabato 6 maggio 2017 alle ore 18.20 nella sala delle confrenze dell'Associazione per la Tutela delle Tradizioni Popolari del Trapanese sita in Trapani via Vespri 32 con la partecipazione di numerosi soci, ospiti e simpatizzanti si è tenuto il settimanale incontro previsto dal programma delle attività del XXXI Corso di cultura nel 35° dalla Fondazione.

L'evento è stato aperto dal Prof. Salvatore Valenti, Presidente del sodalizio, che ha rivolto un cordiale saluto di benvenuto a tutti i presenti ed al relatore della serata Prof. Salvatore Bongiorno, ben noto ai soci, in quanto assiduo partecipante alle attività culturali dell'Associazione per moltissimi anni.

Prima di andare via, dovendo partecipare ad altro inderogabile appuntamento, il Prof. Valenti ha ricordato ai partecipanti al viaggio nelle Repubbliche Baltiche programmato per il mese di settembre p.v. che mercoledì 10 maggio alle ore 18.00 è stato previsto nella sede dell'Associazione un incontro in cui si sarebbe parlato della suddetta attività e quindi, scusandosi, ha dato la parola all'oratore.

Il Prof. Salvatore Bongiorno, già docente di Storia e Filosofia nei Licei, ha esordito ringraziando tutti i presenti e l'Associazione per averlo ancora una volta invitato a partecipare alle sue attività.

Si riporta di seguito ed integralmente quanto riferito dal relatore che ha voluto gentilmente mettere a disposizione il testo del suo intervento.

'' Cu afferra uu turco è so '' di Salvatore Bongiorno

Il Mediterraneo, "la nostra madre "come lo ha definito Dominique Fernandez, grazie alla sua privilegiata posizione geografica che va dai Dardanelli a Gibilterra, per millenni è stato solcato da mercanti, avventurieri, flotte militari. ecc.
Il "grande lago" che ha visto fiorire e tramontare civiltà, è stato mezzo di diffusione di valori e religioni, veicolo di conoscenza tra i popoli rivieraschi, talvolta sterminato muro fra l'Europa Occidentale e il mondo arabo e africano e anche centro di un intenso traffico piratesco, legato alla cattura e al commercio degli schiavi. 
Per Fernand Braudel, nel Mediterraneo la pirateria può considerarsi un'industria vecchia quanto la storia, praticata in modo aperto da tutte le popolazioni rivierasche. 
Un'industria però di cui si poteva essere, di volta in volta, protagonisti attivi o passivi e che classificata "pirateria" nel caso dei corsari barbareschi, veniva addirittura definita "crociata", se invece esercitata dai Cavalieri di Malta o dai Cavalieri di Santo Stefano, anch' essi feroci scorridori del mare.
Le più antiche documentazioni di una presenza piratesca nel Mediterraneo risalgono al secondo millennio a.C. con la presenza di navi dell'Asia Minore e della Fenicia rappresentate nelle iscrizioni pittoriche dell'antico Egitto.
Episodi di pirateria sono riportate anche fin dai tempi più antichi della storia Greca e Romana, quando ad esempio, gli Etruschi erano conosciuti con l'epiteto greco Thyrrenoi, (da cui deriva il nome il Mar Tirreno) e avevano fama di pirati efferati.
Con l'estendersi del dominio di Roma in occidente e in oriente e con l'intensificarsi dei traffici commerciali, si ebbe un pauroso sviluppo della pirateria tanto che Giulio Cesare, nel 74 a.C. venne fatto prigioniero dai pirati durante un viaggio verso Rodi. 
Con la caduta dell'Impero Romano d'Occidente i commerci marittimi diradarono sempre più e, per alcuni secoli, la pirateria scomparve dal Mediterraneo, anche perché nessuna potenza mediterranea era più forte di quella bizantina.
Solo a partire dall'VIII secolo gli unici che compivano incursioni piratesche sui territori bizantini, furono i saraceni che erano considerati fuorilegge dallo stesso Regno Arabo di Spagna.
In quel periodo erano ripresi i commerci mediterranei fra occidente e oriente, in particolare per opera delle città marinare italiane: Amalfi, Pisa, Genova, Gaeta, Venezia.
E con essi la pirateria.
Ma è solo dalla fine del XV e nel secolo successivo che i pirati si trasformarono sempre più in corsari, e inserirono la loro azione in un disegno organico guidato dai governi dei vari Stati o Città-stato.
La guerra di corsa era organizzata con l'approvazione di uno Stato o monarca che sosteneva l'allestimento di una nave armata e di un equipaggio, pronto a intraprendere una spedizione ('mprisa) finalizzata a eseguire atti di guerra contro un naviglio nemico.
La commissione veniva formalizzata da una lettera di corsa (o patente di corsa) che concedeva altresi il diritto di preda sul bastimento avversario. 
La differenza, invero, tra un corsaro e un pirata era molto sottile.
Infatti, se la distinzione tra corsa e pirateria può sembrare chiara sul piano giuridico non similmente appariva nel Mediterraneo di allora, in cui i continui conflitti giustificavano la pirateria.
Infatti, il "Mar bianco di mezzo", come lo chiamarono gli Arabi non era infatti solo un teatro di duro confronto fra l'Europa cristiana e l'espansione della potenza ottomana e non sempre da una parte c'erano i turchi e barbareschi e dall'altra cristiani.
In realtà, di continuo, si formavano e si disfacevano coalizioni; nazioni cristiane in concorrenza tra loro, come la Francia e l'Inghilterra, appoggiano a turno i corsari turchi contro Spagna e viceversa, specie durante gli scontri tra Carlo V e Francesco I e tra Filippo II e Elisabetta I.
Nel linguaggio comune della Sicilia tutti erano detti, comunque, pirati.
In genere nel mediterraneo non si assaltavano navi che trasportavano oro o metalli preziosi, né i corsari erano dei belli e dannati, adorati da eroiche e bellissime donne; il bottino era costituito da carichi di spezie, vino, formaggi, seta, legname, minerali, derrate agricole, soprattutto frumento e uomini e donne, da rivendere come schiavi o chiederne il riscatto.
Diverse furono le compagnie specializzate nel riscatto di individui fatti prigionieri dai barbareschi dagli Ordini dei Trinitari del 1198 ai Mercedari, del 1235, attivi specialmente in Spagna e in Francia, ma le trattative per la libertà venivano condotte, piu o meno disinteressatamente, da religiosi, rappresentanti consolari, agenti commerciali, ebrei e altri.
Se per le reggenze di Algeri, Tunisi e Tripoli il prigioniero valeva essenzialmente il riscatto, non era lo stesso nel mondo cristiano.
Prigionieri particolarmente illustri "riscattati" furono il siciliano Antonio Veneziano e lo spagnolo Miguel Cervantes "captivo" in Algeri dal 1575 al 1580, considerato tanto valente che tutti i cristiani in catene lo invocavano come santo.
Il mondo musulmano non possedeva organizzazioni equivalenti, poiché la liberazione dello schiavo da parte del fedele era considerato un mezzo per espiare i propri peccati, che rivelava il carattere diretto dei rapporti tra i credenti e il loro Dio, senza la necessità di un intermediario.
Cosi i prigionieri magrebini diventavano schiavi che raramente venivano richiesti indietro e finivano col diventare oggetto di commercio interno, rematori sulle galere, forza di lavoro nei campi o in ambito domestico, specie le donne.
Ma i maltrattamenti e le atrocità che si compivano nei confronti degli schiavi avevano il carattere dell'assoluta reciprocità sia in ambito cristiano che in ambito musulmano.
La schiavitù in Africa o in Europa non era per nulla condannata dalla Chiesa, per cui compito del Vangelo non è tanto quello di trasformare i servi in liberi, quanto piuttosto i servi cattivi in servi buoni (S. Agostino).
Lo schiavo simboleggiava la magnificenza della casa del padrone. 
Secondo un proverbio egiziano "gli schiavi consumano le tue ricchezze ma aumentano il tuo prestigio ".
Di molti schiavi venduti sulle piazze dei mercati, abbiamo molte testimonianze custodite negli archivi dell'Arciconfraternita per la Redenzione dei Captivi di Palermo, l'istituzione che in Sicilia si occupava di riportare a casa gli schiavi raccogliendo denaro tramite elemosine, donazioni, scambi finanziari che ingrassavano mercanti, banchieri, intermediari.

"Vui mi pare che aviti poco cura a li fatti mei, che haio mandato multi literi, e mai non fu inpissibuli reciviri da voi uno signo di liter ", scrive uno schiavo siciliano, tale Giuseppe Sanciza, il 15 aprile 1596, che accusa la sorella di non rispondere ai suoi messaggi e la implora di darsi da fare per riscattarlo.
"Ora è tempo di mostrare il vostro vero amore et quanto mi amate come io amo vui", scrive il 6 dicembre 1597 alla moglie il palermitano Cristoforo Lodi, catturato dai corsari tunisini a Ustica "non lasciate cosa a vendere ne che fare con parenti e amici ".
C'è chi, come Salvo Garofano, scrivendo e il 9 agosto 1598 da Tunisi alla moglie, si preoccupa che i familiari non subiscano la stessa sorte "Direti a mio niputi Filippo che apra li occhi quando va per lo mare e supra tutto si guardi di non andare a la larga ".
C'è pure chi più concretamente suggerisce soluzioni come organizzare uno scambio con un prigioniero musulmano: "Si potessiti comprare un turco e mandarlo di qua", scrive il 4 maggio 1592 Nocentio da Messina alla madre e al fratello.

Già, se poteste.
Spesso il riscatto non arrivava e i captivi venivano usati come forza lavoro a costo zero, rematori sulle galee ottomane; solo nella Battaglia di Lepanto furono liberati dal remo sulle navi turche ben dodicimila cristiani.
In Marocco, il sultano Mulay Ismail (1645-1727) si fece costruire, nella nuova capitale di Meknès, un intero palazzo con il lavoro degli schiavi cristiani.
Anche i musulmani catturati ricevevano a loro volta un trattamento analogo: la Reggia di Caserta fu costruita con il rilevante apporto del lavoro forzato di equipaggi barbareschi catturati dalle navi di Carlo di Borbone nel 1739. 
In questo clima di violenze e costrizioni non è inverosimile che si creava tra le sponde mediterranee un "frenetico andirivieni da una religione all'altra", innescando un meccanismo che conduce alla condizione di rinnegato. 
Molti corsari barbareschi erano "rinnegati" da Simon Simonsen detto Dansa perché era stato un danzatore al più famoso Giovanni Dionigi Galeni, detto Uccialli, di origini calabresi, che a dieci anni era stato rapito, portato in Turchia e venduto schiavo.

Divenuto un ammiraglio ottomano, dopo essersi convertito all'Islam, aveva preso il nome di Ulug Ali, che significa Ali il Rinnegato, e aveva combattuto anche a Lepanto nel 1571. 
La leggenda dice che, durante una corsa nelle acque della Calabria, dopo aver gettato l'ancora di fronte al suo villaggio natale, abbia chiesto a dei pescatori del luogo di riabbracciare la madre, che però, non volle saperne, rinunciando ai doni e all'abbraccio del figlio, ormai da lei considerato un rinnegato per la sua abiura. 
Ma in questo variegato panorama esistono anche i 'veri convertiti'. 
Uno degli effetti più clamorosi dell'evangelizzazione degli schiavi è la canonizzazione di santi neri, i francescani: Antonio Etiope da Noto e Benedetto il Moro da San Fratello.
Schiavi o figli di schiavi africani, i due santi costituiscono un esempio della trasmigrazione della cultura religiosa da Roma al Nuovo Mondo.
I corsari barbareschi, il più conosciuto dei quali è probabilmente Khayr al-DIn, detto Barbarossa, non si limitavano, come già detto, a depredare le navi, ma effettuavano spesso anche incursioni nei territori che si affacciavano sul mare.
Famosi gli episodi nei quali vennero ridotti in schiavitù nel 1544 gli abitanti di Ischia (4000 deportati), di Lipari (9000 deportati, quasi l'intera popolazione), di Vieste (7000 deportati), di Bonagia.
"Vinniru ccà di notti a la tunnara, li varchi cu li latri livantini, 'ntisi li vuci di li marinara, 'ntisi chiamari a tutti li vicini, di notti e notti cu scappa, cu spara,cu è ghiccatu 'mbarca chi catini,s'iddru la matri Maria nun n'arripara caremu 'nmanu a 'sti cani scintini ", recita un canto del tempo.
D'altra parte anche i corsari cristiani non si limitavano ad azioni di difesa, ma svolgevano la stessa intensa attività a danno delle coste e delle navi dei paesi dell'Islam.
I Cavalieri di Malta e i Cavalieri di Santo Stefano che, se pur tanto contribuirono a tenere a freno la pirateria, furono causa di rappresaglie cruente, tanto che spesso si scoprirà che i peggiori pirati e contrabbandieri nel Mediterraneo erano proprio i cavalieri.
Questi frati di nobili origini feudali, soldati e uomini votati alla castità, questi figli non primogeniti costretti dalla famiglia ad abbracciare la carriera monastica e militare non furono meno feroci.
Nel "grande assedio" di Malta del 1565 il pirata Dragut, per fiaccare psicologicamente l'animo degli assediati, fece inchiodare i cadaveri dei cavalieri su delle croci, che furono poi spinte dal porto verso forte St. Angelo. 
La risposta di De La Vallette, che allora comandava l'isola, non fu meno crudele: dopo aver fatto uccidere tutti i prigionieri turchi, caricò i cannoni con le loro teste e le fece sparare contro le postazioni nemiche.
Scrive Braudel in " Civiltà e imperi del mediterraneo nell'età di Filippo II", che in tutto il mediterraneo l'uomo era cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi dei campi di concentrazione.
Oltre un milione, secondo lo storico americano Robert C. Davis furono tra donne, uomini e bambini, coloro che in modi diversi soffrirono lontananze, prigionie e morte.
Ovviamente molte città di mare, note come grandi centri corsari divennero contemporaneamente, grandi centri commerciali e si arricchirono notevolmente, perché per rivendere i bottini, le prede, per organizzare il riscatto degli schiavi, per armare le navi, bisognava creare le necessarie infrastrutture e le giuste condizioni economiche.
Si venne a creare un indotto che sfamava e arricchiva l'intera popolazione.
I principali centri corsari del Mediterraneo furono, da parte cristiana, La Valletta, Livorno, Pisa, Napoli, Messina, Palermo, Trapani, Palma di Maiorca, Almeria, Valencia, Segna, Fiume; da parte musulmana, Valona, Durazzo, Tripoli, Tunisi, Biserta, Algeri, Tetuan, Larache e Salé.
In questi tempi di ferocia, terribili erano i Genovesi e anche i Savoia, ma i siciliani non restarono certo a guardare.
Il maestro portolano, Francesco Abatellis, palermitano alla fine del 1400, mise in fuga le navi turche e riusci a razziare le principali città della Barberia. 
Crudeli pirati erano anche gli abitanti di Lipari, già prima che Alfonso D'Aragona unificasse nel 1542 il Meridione e molti furono i viceré spagnoli che armarono galere per fare in proprio la guerra di corsa.
Tra questi il viceré Bernardino de Cardinas, duca di Maqueda, che si arricchì moltissimo ma, narra la leggenda, ne mori perché in una cassa portata a corte, insieme al ricco bottino vi trovarono un cadavere che, probabilmente morto di peste, lo contagiò.
Marcantonio Colonna fu addirittura accusato di complicità con il famoso corsaro Uccialli, con cui intrattenne un carteggio.
Famoso e importante centro piratesco e mercato di schiavi di cui si ha buona documentazione, era Trapani.
Il porto di Trapani era un palcoscenico sempre cangiante di venti, di legni, vele, bandiere, uomini bianchi, rossi neri, affaccendati a manovrare remi di fuste (un tipo di galea più sottile, leggera e veloce e caratterizzata da un minor pescaggio rispetto alla classica galea da guerra), galere e galeotte corsare, sciabecchi francesi, galeoni spagnoli, vascelli pirata inglesi e olandesi con base a Tunisi o Algeri, vascelli catalani o genovesi, qualche polacca veneziana.
E poi gli schifazzi locali, tartane, bilancelle da pesca, coralline di ritorno dai banchi africani dove si lavorava da Pasqua ai Morti, i vascelli neri delle tonnare messi in funzione dalla famiglia Pallavicini che a quel tempo aveva ottenuto le isole Egadi dal re di Spagna a fronte di un suo prestito emesso per le guerre spagnole delle Fiandre.
Nel porto di Trapani ogni mese faceva la sua apparizione la lugubre galera della
Santa Inquisizione che faceva la spola con Palermo e ogni sei mesi si presentava una nave maltese che da Lampedusa portava le offerte dei cristiani e dei turchi per il santuario della Madonna di Trapani.
Sotto la cupola di maiolica verde della Chiesa di San Francesco, vicino al forte vi erano i cantieri navali che ospitavano barche di amici e di nemici.
Se per la Sicilia in generale, sotto il domino aragonese e poi dal 1569 spagnolo, l'economia non ebbe molta fortuna, diversamente andò per Trapani dove la favorevole posizione geografica del suo porto servi a mantenere attivo il bilancio economico.
Punto di tangenza sulle rotte mediterranee del tempo, la città svolgeva egregiamente la sua funzione di scalo e di appoggio gestendo, nello stesso tempo verso Tunisi e gli altri paesi nord-africani, un proprio commercio basato sul grano, il sale, la tonnina e l'olio.
Queste attività, associate a quelle artigianali dei corallai, degli argentieri e degli orafi, avevano fatto affermare una classe sociale mercantile, già in ascesa con gli Aragonesi, che aveva cominciato ad armare galee e brigantini sia per garantire la sicurezza delle tonnare, della pesca del corallo e dei caricatori di grano siciliano, sia perché intravedeva nella pirateria e nel mercato degli schiavi una buona fonte di guadagno.
Ne il Novellino una raccolta di cinquanta racconti pubblicata peraltro postuma nel 1476 e impregnata di forte carattere anticlericale, tanto da figurare nel primo Indice dei libri proibiti della Santa Congregazione dell'Inquisizione romana, Tommaso Guardati, detto Masuccio Salernitano, scrive che "Trapani, cità nobile de Scicilia, c è posta ne le postreme parte de l'isola, e quasi più vicina in Affrica che altra terra de'  cristiani; per la cui accagione i trapanisi multo spesso con loro ligni armati corsiggiando discorreno le spiagge e rivere de' mori, fandove de continuo grandissime prede, e anco loro sono a le volte da' mori depredati; de che spesse volte avviene che, per contrattare gli recatti de' pregioni, da parte in parte vi fanno le tregue, e portano le mercanzie, e comparano e vendono, e con gran facilità pratticano insiemi; per la quale ragione pochi trapanisi sono, che non sappiano le circustanzie de' paesi de' mori como sanno ie loro medesme".
Alla fine del '500 la flotta trapanese era costituita da almeno un terzo di navi adibite alla guerra su un totale di un centinaio di caravelle, brigantini, galeotte e tartane.

Scrive Salomone Marino che a Trapani "gli impresari si riunivano in societas per intraprendere le scorrerie sul mare, formando un'agguerrita classe di mercanti-pirati (De Abrignano, De Aiuto, Incumbao, Maccagnone, Riccio, De Sigerio), le cui fortune erano pure sostenute dalla partecipazione finanziaria di Ebrei o di potenti cittadini trapanesi che sfruttarono la pirateria per costruire le fortune della famiglia armando apposite navi o sostenendo con prestiti le altrui imprese".
L'attività corsara era per la città un buon investimento produttivo e sempre più spesso le navi trapanesi, si spingevano fin sulle coste tunisine per catturare non solo naviglio e mercanzie, ma anche "merce umana" che, ridotta in schiavitù, era venduta nei mercati siciliani e spagnoli.

Gli atti notarili per compravendite o testamenti, i registri parrocchiali dei battesimi e dei matrimoni, le liste del personale di bordo arruolato confermano, a partire dai primi anni del XV secolo sino alla fine del '700, la presenza di schiavi musulmani nella città.
Interessante è la documentazione raccolta da Bonomo sugli usi che i Trapanesi, ma non solo i trapanesi, facevano degli schiavi perchè anche qui il possesso di uno schiavo musulmano era uno status symbol.
"A Trapani tra il 1590 e il 1610," scrive il Bonomo, "molti personaggi che vivevano di rendite di proprietà non terriere, possedevano e avevano in affitto schiavi e schiave addetti ai lavori casalinghi. Non sempre chi comprava schiavi li impiegava direttamente: c 'erano mercanti che li compravano per darli in affitto, individualmente o a gruppi, a terzi, che li richiedevano per lavorare nei campi o nelle masserie, per cavare pietre, per costruire case, ecc. ".
Il numero delle schiave superava dell'80 per cento quello degli schiavi.

Un quadro delle piccanti vicende domestiche legate alla presenza di belle e giovani schiave a Trapani nel secolo XV è fornito da Carmelo Trasselli.
Da alcuni rilievi del 1593 si evince che nelle famiglie presso cui vivevano giovani schiave era frequente la presenza di figli naturali.
"Insomma molte case trapanesi erano di fatto privati postriboli o, se si vuole un'espressione meno cruda, dei variopinti ginecei con ragazze di razze spesso diverse".
Non meno interessato alla schiavitù domestica era il clero secolare, presso cui più numeroso era in proporzione l'elemento servile.

A Trapani per gli anni 1658-62 su cinque persone che compravano o vendevano soggetti servili, donne soprattutto, due erano sacerdoti.
Da parte di alcuni addirittura si crede che quasi tutti gli ecclesiastici possedessero schiave.
I trapanesi, secondo alcuni storici, non solo potevano rivolgersi per la liberazione dei loro cari all'Opera della Redenzione di Palermo (fondata nel 1596) e poi al Convento dei Mercenari (1620) di Trapani, ma addirittura gestivano il controllo dei cartelli affaristico-malavitosi in materia dei riscatti degli schiavi", specie a Tunisi che dista da Trapani solo ottanta miglia di mare e dove vi erano cinque bagni penali per contenere gli schiavi.
In "Schiavi siciliani e pirati barbareschi ", Bonanno scrive che "in Tunisia il riscatto degli schiavi era in subordine ai traffici intrattenuti da intermediari della Redenzione di Palermo per conto di potenti personaggi di Trapani con altrettanti di Tunisi. Ciò comportava grave danno ai " poveri schiavi ", quelli non "raccomandati " dai trapanesi.
Esiste una lettera di un certo Ballature alla moglie, nella quale denuncia ipotesi di legami di tipo mafioso tra imprenditori trapanesi di corsa e di pirateria e autorità tunisine in ordine al riscatto degli schiavi.

"Tanto si facea per la Redentione quanto volevano quessi trapanesi" che riscattavano i racomandati et allistati " coloro per i quali avevano interesse "et quelli poveretti per li quali le loro genti si hanno venduto insino alle cenneri", cioè si erano spogliati di ogni loro avere, erano lasciati in catene in Tunisia.
In verità molti amici di schiavi trapanesi erano armatori di legni da corsa, imprenditori di spedizioni, pirati stessi, persone che contavano per ricchezza, erano ammiragli, viceammiragli, ricchi mercanti, ebrei, disponevano di notevoli mezzi economici.
Non si può escludere, a nostro vedere, che intendendosi coi tunisini avessero provveduto a regolamentare, a modo loro, il riscatto di quei trapanesi che fossero catturati da legni di Tunisi, i cui padroni, che esercitavano la corsa o la pirateria o entrambe, e avevano interessi non dissimili da quelli dei trapanesi, armatori di navi e imprenditori di scorrerie corsare.
Tre secoli di pirateria non potevano non aver aggiunto o cambiato qualcosa, condizionandone il linguaggio e la vita sociale.
Vedi l'utilizzo del termine Mammaddrau (Mamma Dragut) per spaventare i bambini, che poi altro non è se non il grido di paura per incursioni barbaresche insieme al più famoso "Mamma li turchi!" Aiuto madre, arrivano i turchi.
Le stesse isole Egadi furono un covo di pirati moreschi.
A Favignana, verso la zona di San Nicola, sul versante settentrionale dell'isola, stazionava saltuariamente il famosissimo Barbarossa e da Marettimo, con le sue sorgenti di acqua, assente a Levanzo e salmastra a Favignana, i pirati non di rado costeggiavano esternamente lo specchio d'acqua salmastro che dall'isola di San Pantaleo porta a Mozia sogno e incubo di piu generazioni di greci siciliani dopo l'assedio di Dioniso di Siracusa.
Al tempo si diceva che i turchi d'estate buttavano pecore morte nei pozzi per infettare l'acqua, diffondendo cosi le malattie e fiaccando la resistenza dei costaroli che preferivano, quando c'era, bere vino.
Orza ancora dicono i trapanesi, per esempio, quando si è costretti a navigare contro vento per esprimere un momento difficile.
A Trapani il termine jureo (giudeo) è usato ancora oggi non per qualificare gli ebrei ma una persona cattiva, come Sinan il Giudeo un pirata rozzo, sanguinario e pieno d'odio contro i Cristiani.
Si narra infatti che a Sinan i cristiani avevano preso un figlio di dieci anni, finito schiavo in Toscana e che quando l'amico pirata Barbarossa riuscì dopo dieci anni a farlo liberare fu tale la sua gioia che, preso da un improvviso malore, mori abbracciandolo.
Per non parlare del baccagghiu, un modo di esprimersi, poi utilizzato dai codici 
linguistici della malavita, ma che al tempo altro non era se non il linguaggio comune dei porti del mediterraneo, fatto da tante lingue, siciliano, napoletano, francese, spagnolo, arabo, maltese, messe insieme in una sorta di lessico convenzionale compreso e parlato da tutti gli uomini di mare.
Anche sul piano gastronomico il rancio dei marinai a bordo è finito col diventare cibo comune; u salamurece, una zuppa d'acqua con pomodoro, basilico e un filo d'olio e pane, a tunnina salata, i pisci sicchi, u baccalà già introdotto dai Normanni, che lo scambiavano con il sale marino trapanese, a caponata, piatto ricco baronale spagnolo diventata poi con il nome di capon de galera, buona vivanda di bordo a lungo conservabile per via dell'aceto.
Alle giovani schiave nord-africane, provenienti dai centri di Algeri, Tunisi e Tripoli. si deve la prima apparizione dell'attuale cuscus trapanese abbivirato (innaffiato) con brodetto "stretto" di pesce, mentre le frascatole costituiscono una variante più sbrigativa.
Infine, spezie e droghe in abbondanza utilizzate in diversi piatti popolari, provenienti inizialmente dai continui saccheggi perpetrati in mare o sulle coste tunisine e algerine.
Insomma a Trapani tra sale, cattura dei tonni, pesca del corallo, la pirateria non si campava male, lo stesso Carlo V fu in città nel 1536 dopo aver stappato, ma solo per poco tempo Tunisi ai barbareschi.
In città presso Porta Nuova a ridosso delle mura di Levante, c'era la Caserma degli spagnoli, sull'isola di Sant'Antonio, oggi unita alla terraferma, ( Lazzaretto), c'era una Chiesa edificata nella prima metà del sec. XIII e distrutta nel sec. XVI, che aveva la funzione di ospitare gli equipaggi delle barche sospette, presunti portatori di epidemie, per il periodo di quarantena.
Vi era un collegio a ridosso del carcere vecchio per le donzelle disperse, ragazze che da piccole erano state abbandonate dalla famiglie per vari motivi e ovviamente per altro tipo di ristoro in una città di mare non poteva mancare, vicino all'ospedale grande il collegio delle Projette che esercitavano l'antica professione. 
In una stradetta vicina c'era la famosa via Neve, adesso via tenente Genovese dove si confezionava il sorbetto; certo una circostanza in apparenza inverosimile, poiché a memoria d'uomo ad Erice la neve si è vista solo in circostanze eccezionali, ma della esistenza delle neviere esiste documentazione, cosi come delle modalità di trasporto e di conservazione della neve, che veniva compattata in blocchi e tenuta al buio in stanzoni chiusi ed isolati.
Non mancano i racconti veri o presunti.
A Favignana, in località San Nicola, c'è una grotta che riporta lo stemma di Hugo de Moncada, nominato viceré di Sicilia nel periodo dal 1527 al 1528, battezzata appunto Grotta del Riscatto perché presumibilmente il nobile spagnolo vi si riuniva con i suoi "uomini di giustizia" per stabilire il prezzo del riscatto dei captivi. 
Masuccio il Salernitano racconta che a Trapani viveva un pirata che, come tutti i pirati, depredava le navi che incrociavano le vele al largo di Trapani.
Gli affari non dovevano andargli troppo male, dal momento che aveva al suo servizio almeno uno schiavo turco di nome Dragut.
Anche in amore tutto gli andava bene. Infatti chissà come una donna francese, Madame Serisse, si era innamorata di lui e l'aveva seguito a Trapani e da allora tutti lo chiamarono il pirata Serisso.
Un giorno i suoi impegni di pirataggio, lo portarono per un pò di tempo lontano da Trapani e allora, come è facile immaginare„ la passione travolse Madame Serisse e lo schiavo rimasti soli a Trapani.
La storia che si racconta è che i due amanti, assieme ad una imprecisata turca, forse la moglie dello schiavo, fuggirono in Turchia, che non era l'odierna Turchia, ma un nome generico che poteva indicare qualsiasi paese di religione musulmana.
Quando Serisso ritornò a Trapani, non trovando nessuno in casa e accecato dall'ira si rimise subito in mare ed andò a caccia dei due fedifraghi.
Non sappiamo dove trovò i due amanti, ma sappiamo che li trovò, uccise prima lo schiavo turco, poi tagliò la testa alla moglie infedele ed infine ritornò a Trapani con la moglie del suo ex-schiavo di cui non si conosce il nome e con la testa della moglie in un sacco.
Arrivato a trapani conficcò la testa della moglie in un palo davanti casa, che si trovava dalle parti di Porta Ossuna ed infine visse con la turca '' gran tempo felicemente''.
Siccome nel frattempo la testa della moglie si era imputridita si dice che abbia disposto la sua sostituzione con una copia in marmo che ancora adesso si può osservare all'angolo fra la marina e la via che adesso porta il suo nome.
In via dei Corallai si diceva che le donne venivano terrorizzate dalle apparizioni del Turco, quando i mariti uscivano per la pesca.
Il turco si diceva essere il fantasma di Michele un tunisino di Monastir che era stato catturato e venduto ad una famiglia di pastai che lo avevano messo a loro servizio. Il turco aveva servito i suoi padroni con una lealtà che non meritavano, perchè dopo vent' anni di lavoro, già anziano e acciaccato lo avevano sostituito con un altro schiavo e fatto morire di fame.
Cosi lo spettro senza pace e senza riposo s'era messo a spaventare soprattutto le donne incinte, non facendo portare loro a termine la gravidanza.
Interessante è la storia d Mpappete. 
Mpappete, chiamato cosi per il tartagliare, non era altro che un avanzo di galera, un malacarne, un poco di buono sempre pieno di soldi e al servizio di chiunque, autorità comprese che fossero spagnoli, austriaci, piemontesi.
Si racconta che fu fatto cadere in mare annegando da Mastro Tore Safina, un corallaio valente e intelligente che dopo essere stato per quindici anni prigioniero dei tunisini,era ritornato perché era riuscito a trovare un grande banco di coralli che aveva arricchito i suoi padroni che per gratitudine lo avevano lasciato libero e con tanti soldi.
Mastro Tore con i soldi era riuscito ad allestire quattro belle barche coralline a dodici remi e vela latina, l'impresa andava tanto bene che tutto il corallo lo vendeva a prezzo maggiore ai genovesi e non ai corallai locali.
Si dice che questi ultimi forse pagarono Mpappete che riusci a tradimento a bruciare tre delle navi coralline distese a riva nel periodo invernale; se ne salvò solo una perché era a Marettimo.
Da qui la vendetta del corallaio che poi nella vecchiaia ed avendo poco da vivere imbottì la sua nave di polvere da sparo e si scagliò come un moderno kamicaze contro una nave di pirati saraceni che insidiavano l'isola di Marettimo, ultima sua residenza.
Per testamento lasciò gran parte delle sue sostanze alla chiesetta di Santo Liberante, il santo che pregato liberava i trapanesi catturati dai pirati.
L'ancora viva e ammiccante espressione trapanese "Cu pigghia un turcu, è sou", è data, secondo alcuni, dal fatto che il viceré Colonna, nel 1582, sulla scia di una legge di Carlo V, incoraggiò una scorreria di vascelli trapanesi a Monastir, promettendo loro l'esenzione dalla decima sul bottino realizzato e "ordinando che il tutto fosse intieramente di quelli che si ponessero in avventura di fatti [pirateschij", come riconoscimento di un diritto di possesso unilaterale frutto di una illecita appropriazione.
Per altri invece il detto deriva da uno scritto dell'epoca che fa riferimento al mercato degli schiavi posto probabilmente in quello spiazzo, oggi largo Santo Padre, che delimitava il quartiere ebraico da quello cristiano.
Voleva significare infatti che colui che per primo toccava uno o una schiava che non era stata aggiudicata nell'asta svoltasi precedentemente, aveva il diritto di prelazione.
Un po' come si fa oggi al tempo degli sconti.
Dagli inizi del Seicento il mercato degli schiavi cominciò ad affievolirsi anche per il completamento delle opere di difesa della città e delle coste attraverso un sistema efficace di "torri di avviso" che comunicavano tra di loro lungo la costa fra Trapani e Palermo.
Ma nel Cinquecento e nel seicento lo specchio di mare tra il Nord Africa e la Sicilia pullulava di cacciatori e di prede: razziavano i cristiani con patente e i cristiani abusivi, razziavano gli islamici in regola e no, razziavano gli schiavi musulmani autorizzati dal padrone a esercitare l'attività per pagarsi il riscatto e conquistare la libertà, razziavano gli schiavi liberati che avevano appreso l'arte dell'andar per mare, tutti contro tutti, in un arraffa-arraffa di uomini e cose che incrociava destini e fortune.
Oggi il mondo è cambiato, impossibile apparentemente accomunarlo a quegli anni ma piaccia o meno, vinti o vincitori, islam o cristianesimo, pericolosamente il mare nostrum sempre di piu si sta riempiendo di dolore e di morti e sembra che il tempo non sia passato ''.

Alla conclusione della relazione ha fatto seguito un dibattito che ha visto la partecipazione di alcuni dei presenti in sala che hanno apportato propri ed interessanti   contributi alla discussione ed al tema trattato.

Terminato il dibattito la Dott.ssa Silvia Casciano, prima dei saluti di arrivederci a sabato 13 maggio 2017 alle ore 18.00 nei locali del sodalizio, a nome del Presidente e dell'Associazione ha donato al Prof. Bongiorno a ricordo della serata il libro di E. Milana '' 33 cunti ''.

 

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