2017 - 10 - 21: Prof.ssa Lina Novara - La scultura lapidea rinascimentale nel territorio trapanese

Sabato 21 ottobre 2017 alle ore 18.20 nella sala delle conferenze dell'Associaziane per la Tutela delle Tradizioni Popolari del Trapanese sita in Trapani via Vespri 32, come previsto dal programma delle attività culturali del XXXI Corso di cultura per l'anno 2017, 35° anno dalla fondazioe, si è tenuto il settimanale incontro che ha visto la partecipazioe di un numeroso gruppo di soci e di simpatizzanti.

Ospite e relatrice della serata la Prof.ssa Lina Novara, Storico dell'arte e Presidente dell'Associazione '' Amici del Museo Pepoli '' di Trapani che è stata accolta dal Presidente e dai presenti con molta cordialità in quanto ben nota avendo assiduamente partecipato per molti anni alle attività culturali del sodalizio.

I lavori della serata sono stati aperti dal Prof. Salvatore Valenti, Presidente dell'Associazione, che dopo una breve presentazione ha ceduto la parola Prof.ssa Novara che dopo aver saluato i presenti e ringraziato l'Associazione per l'invito che ancora una volta le è stato rivolto è entrata in argomento.

Si riporta di seguito ed integralmente quanto detto nel corso della serata perchè gentilmente reso disponibile dalla Prof.sssa Novara insieme alla serie di diapositive che sono state proiettate a supporto del tema trattato. 

'' La scultura lapidea rinascimentale nel territorio trapanese '' - Prof. Lina Novara

 A partire dalla seconda metà del secolo XV nel territorio trapanese giunge una ventata di novità rinascimentale e di nuovi interessi artistici con le opere di Francesco Laurana e Domenico Gagini.

La città di Trapani stentò però ad inserirsi nel clima culturale di stampo umanistico che si andava diffondendo a Palermo e Messina, ed anche in centri minori come Marsala, Mazara ed Alcamo in quanto il ceto erudito era dedito soprattutto agli studi di astronomia e di nautica e gli interessi della città erano rivolti maggiormente alle attività legate al mare e al commercio, a differenza della vicina Marsala che trovava il suo principale sfogo nelle attività agricole.

A Trapani, da sempre, protagonista incontrastato è stato il mare al quale, nei secoli, la città ha legato la sua storia e la sua economia basata sia sulle attività commerciali che sulla pesca e sulla produzione del sale. Il porto nel secolo XV fu il perno degli scambi commerciali con la Spagna e quando nel XVI il Mediterraneo perse importanza per lo spostamento degli interessi verso l’Atlantico, anche il porto di Trapani risentì del cambiamento.

Un ruolo rilevante nell’economia cittadina ebbe nel secolo XV la comunità ebraica, dedita alla lavorazione del corallo, del ferro e dei tessuti, oltre che al commercio e alla professione medica, concorrendo allo sviluppo di un fiorente artigianato che nel 1492, con la cacciata degli Ebrei, subì un arresto con danni economici non indifferenti. 

Divenuta Civitas, nel 1478 da Ferdinando il Cattolico ebbe concesso il titolo di Invittissima per i “rilevanti servigi” alla Casa d’Aragona (Pugnatore 1595) e le resistenze ai nemici del regno.  Nel 1535 Carlo V, durante una sua visita, la definì “una delle chiavi del Regno”, mantenendone i privilegi compreso quello di conferire lauree e dotandola di imponenti fortificazioni contro i possibili attacchi saraceni.

Castellammare del Golfo fino al secolo XVI ebbe un ruolo prettamente commerciale e di servizio per l'entroterra e fu scarsamente abitata, tanto che nel 1526 si contavano 450 abitanti. Proprio all’inizio del nuovo secolo il barone Giacomo Alliata otteneva di ricostruire il borgo attorno al castello, posto a protezione di un importante caricatore frumentifero del palermitano, ormai in rovina (Vesco 2011 p. 508), chiamando maestranze venete e napoletane. Nel 1521 lo stesso Alliata fa edificare la chiesa di San Nicola (ora della Madonna del Rosario, detta di l’Agnuni) sopra il cui portale d’ingresso si ammira un bassorilievo marmoreo, di scuola gaginesca, raffigurante la Madonna col Bambino con S. Nicolò ed un eremita dinanzi al Crocifisso.

Marsala verso la metà del XV secolo, sotto il regno di Alfonso il Magnanino, diede inizio ad un “proprio rinascimento” (Griffo Alabiso 1984, p.43) nel campo delle lettere e delle arti, pur tra difficoltà di vita, causate dai tributi imposti dal governo spagnolo, dalle vessazioni degli eserciti e dalle scorrerie di pirati.

A Mazara un ruolo importante ebbero i vescovi che ristrutturarono ed abbellirono chiese, ne costruirono delle nuove e promossero la cultura, le arti e gli studi, notevolmente avvantaggiati, sul finire del XVI secolo, dalla fondazione del Seminario: Giovanni Monteaperto, in particolare, nella seconda metà del XV secolo ristrutturò la Cattedrale e raccolse preziosi oggetti liturgici in un apposito “tesoro”.

Alcamo, dal 1484 feudo dei conti di Modica, fu una città “opulenta” e “gioconda” come la definì Carlo V, in visita nel 1535, accolse scultori, pittori e architetti, e visse un periodo tranquillo con favorevoli condizioni economiche, sia per la generosità dei suoi feudatari, che per la laboriosità dei cittadini.

Erice, basata su di una economia di matrice agricola e pastorizia, erigeva chiese e manteneva monasteri e conventi.

 Nel territorio trapanese nel XV mancano artisti di rilievo e i primi sintomi di rinnovamento si avvertono con l’arrivo delle opere di Domenico Gagini a Salemi e con l’impianto di una bottega a Partanna da parte di Francesco Laurana nel 1468. Le opere di Salemi sono un’acquasantiera richiesta da Riccardo Lanzirotto procuratore della chiesa Madre, per la stessa chiesa (1463-64), e la statua di San Giuliano (ca. 1464), per la chiesa omonima.  

Dislocati nei comuni di Trapani, Erice, Alcamo, Marsala, Mazara, Partanna, Castelvetrano e Salemi, si trovano statue, rilievi, ancone marmoree, portali, sarcofagi e monumenti funebri, dovuti, tra XV e XVI secolo, al mecenatismo delle facoltose famiglie locali come i Ventimiglia Bosco e gli Staiti a Trapani, i Grifeo a Partanna, i Tagliavia a Castelvetrano, ma anche dei vescovi di Mazara e di prelati, ordini o semplici religiosi in tutte le città: si tratta di un considerevole numero di sculture lapidee - per lo più statue di Madonna con Bambino e di Santi - prodotte nelle botteghe di Francesco Laurana, Domenico e Antonello Gagini, e in seguito dei figli di questo: ai loro si affiancano i nomi di Pietro Bonitate, Gabriele di Battista, Iacopo di Benedetto, Giuliano e Andrea Mancino, Bartolomeo e Antonino Berrettaro, scultori provenienti dalla Lombardia e dalla Toscana.

Dalle notizie documentarie solo due botteghe furono impiantate nel territorio trapanese: quella già citata di Laurana a Partanna ed una ad Alcamo di Bartolomeo Berrettaro che dal 1501 al 1517 è associato con Giuliano Mancino.

Laurana ebbe a Partanna una clamorosa controversia con il barone Onorio II Grifeo  il quale, avute in prestito sei once dallo scultore, non solo si rifiutò di restituirgliele ma sequestrò la bottega con tutti gli arnesi e le opere, allo scopo di trattenere Laurana  a Partanna per lavorare, a suo vantaggio, “li petri” ossia il locale alabastro venato, gessoso e calcareo, del quale tuttora rimangono tracce in contrada Baiata, a circa tre chilometri a sud della città (Patera 1992, pp. 10-15): la controversia si risolse  a favore del Laurana con l’intervento del Vicerè Lopez De Urrea, ma lo scultore abbandonò Partanna e tornò a Palermo lasciando incompiute due statue di Madonna con Bambino, poi ultimate probabilmente da Pietro Da Bonitate con il quale il dalmata collaborava: una si trova ora nella chiesa dell’Annunziata di Castelvetrano, l’altra nel Museo Civico di Salemi (già nella chiesa del Carmine).

Rimasero a Partanna una Madonna dell’Udienza, ora nella chiesa del Carmine, il cui Bambino è riferito a Pietro di Bonitate, un fonte battesimale, usato come acquasantiera nella chiesa Madre, e lo stemma dei Grifeo, sopra la porta d’ingresso del salone del Castello, probabile opera autentica del Laurana.

Certamente un ruolo dominante nell’iconografia delle numerose statue di Madonna con Bambino dei secoli XV e XVI ebbe il simulacro della Madonna di Trapani (ca. 1360), attribuito a Nino Pisano e venerato nel santuario dell’Annunziata, il cui culto varcò i confini dell’isola grazie a quanti, di tutti i ceti sociali, orbitarono attorno al porto di Trapani e ne divulgarono il culto e l’immagine in Italia, nel Mediterraneo e all’estero. Tale diffusione, nonché la bellezza dell’opera ed il fascino emozionale da essa suscitato, determinarono con Laurana e Domenico Gagini l’affermarsi di un modello iconografico seguito anche dagli scultori dei secoli successivi. Conseguenza ne fu la richiesta da parte di chiese, comunità religiose, conventi, soprattutto carmelitani, oltre che da fedeli di ogni rango, di una gran quantità di copie in tutto il Mediterraneo e persino nei paesi del Nord Europa.

In tutte le riproduzioni sono presenti i connotati iconografici della statua trecentesca come il giro falcato delle pieghe sul fianco destro della Madonna, il panneggio che scende sotto la figura del Bambino, il lieve hanchement ed il leggero inclinamento del capo, ma sempre diversi sono i volti che nessun scultore è riuscito riprodurre; sebbene fosse espressamente richiesto di imitare il modello trapanese, «la libertà dell’artista restava sempre libera ed autonoma» (Meli 1964, p. 243) di esprimersi secondo il proprio stile e la propria sensibilità artistica.

Significativa a tal proposito è la richiesta, quasi perentoria, inoltrata nel 1469 a Laurana dall’arciprete della chiesa Madre di Erice, Paolo Gammicchia, di una statua simile alla Madonna di Trapani, in sostituzione di un’opera precedentemente commissionatagli e mai pervenuta ad Erice perché trattenuta a Palermo dagli officiali di quella città. Il Laurana si impegna quindi a scolpire una nuova statua melioratam e a completarla e rifinirla ad Erice, entro il 25 marzo festa dell’Annunciazione. Dallo stesso documento si apprende che l’opera doveva essere trasportata via mare ed approdare sulla spiaggia di Bonagia, oggi in territorio di Valderice, per essere poi trasferita sul monte.  Si è sempre ritenuto che Laurana avesse disatteso l’impegno e che, in sua vece, Domenico Gagini avesse realizzato la statua della Madonna di Trapani, venerata nella chiesa Madre di Erice, purtroppo deturpata da un cattivo restauro del XVII secolo, e somigliante alla Madonna di San Mauro Castelverde dello stesso Domenico (1480) per il ridondante panneggio. Nella chiesa di Sant’Orsola di Erice esiste però una copia della Madonna di Trapani (ora mutila della testa del Bambino) che potrebbe essere identificata con la seconda statua commissionata a Laurana.

Furono soprattutto i Carmelitani, che da sempre considerano Maria madre e patrona, a richiedere agli scultori opere riproducenti la Madonna del santuario di Trapani, retto dai frati dello stesso ordine.

L’ampio consenso popolare riscosso nell’isola dalle aggraziate Madonne di Domenico Gagini, indusse il carmelitano Ludovico Petrulla a richiedere allo scultore, intorno al 1490, una Madonna del Popolo, meglio detta dell’Annunziata, per la chiesa del Carmine di Marsala, ora nella chiesa Madre. Ispirandosi al simulacro trapanese, Domenico modella la statua con accuratezza tecnica, la rende elegante nella posa un po’ indietreggiante e fa trasparire serenità e dolcezza dagli sguardi, soprattutto in quello che il Bambino rivolge alla madre, ribadendo così certi suoi modi espressi in altre Madonne, come quella di Salemi, detta della Candelora, che, fra l’altro, reca una simile fossetta sul mento, realizzata nel 1468 per volere di Giovanni Lo Vesco (Cremona 1762, par. 433).

Nel 1491 Domenico si impegnò inoltre, assieme ad Andrea Mancino, a scolpire una Madonna di Loreto per la chiesa di San Francesco d’Assisi di Marsala, secondo il modello della statua del convento della SS. Annunziata della stessa città, e cioè la Madonna del Popolo (Meli 1959, p. 262).

Secondo Patera «il vero Domenico Gagini siciliano è quello delle aggraziate e trepide Madonne, pittoricamente mosse e naturalisticamente allettanti il gusto dei committenti, elaborate senza eccessive preoccupazioni di struttura formale e di credibilità statica» (Patera 1975, p. 154), per la necessità di soddisfare con sollecitudine, le numerose richieste che arrivavano da tutta l’isola. Ma con la Madonna di Loreto, si arresta e si conclude «quel processo involutivo» (Ibidem) dovuto alla facile fortuna commerciale, tanto che l’opera può essere considerata una delle migliori dello scultore, eseguita a poco meno di un anno dalla morte.

I Carmelitani di Trapani volendo abbellire la cappella della loro Madonna si rivolgono al miglior scultore del momento, il celeberrimus Antonello Gagini, per l’arredo marmoreo: nel 1516 gli commissionano un «tabernacolo», ossia un baldacchino destinato all’altare della Madonna, e nel 1531 un grande arco da collocare tra il sacello e la navata della cappella (Gulisano 1995, pp.76-90).

Le spese saranno sostenute da Francesco Del Bosco, discendente della famiglia Ventimiglia Del Bosco che fin dal 1370 deteneva il diritto di patronato sulla cappella (Monaco 1981 pp.75-84).

La corrispondenza tra la descrizione contenuta in un documento del 1539 ed il baldacchino dell’altare maggiore della chiesa del Carmine di Trapani, fa ritenere che quest’ultimo sia quello un tempo posto nel santuario dell’Annunziata (Gulisano 1995, pp.76-90), poi sostituito con una struttura barocca.

Antonello, ispirandosi al mondo classico, concepisce il baldacchino come il pronao di un tempio con frontone triangolare, e nella delicata decorazione del fregio ripropone i motivi vegetali, di gusto rinascimentale, già inseriti nel baldacchino marmoreo, eseguito nel 1516 per la cappella dalla famiglia Staiti, in Santa Maria del Gesù, a Trapani.

È da ricordare, a proposito della suddetta chiesa, che sopra il portale laterale è collocato un rilievo raffigurante l’Annunciazione, ancora influenzato dal gusto gotico, datato da Scuderi tra la «fine del XV o primi decenni del XVI secolo» (Scuderi 1978 pp.135-136) e dallo stesso riferito al filone hispano flamenco della scultura spagnola, nel quale confluiscono influssi italiani, tedeschi e fiamminghi. La composizione della scena e la tipologia delle figure, nonché la collocazione del vaso con gigli e nastro svolazzante, i particolari realistici come i conigli, la forma del leggio e del trono, l’assenza di prospettiva, a mio avviso, trovano invece più puntuali riferimenti iconografici e stilistici in un rilievo in ardesia, con lo stesso tema, esposto nella «Sezione romanica e rinascimentale» dei Musei Civici del Castello Visconteo di Pavia: riferito a Maestro lombardo 1460/70 ca., proviene dal monastero di San Salvatore della stessa città. L’opera trapanese potrebbe quindi attribuirsi ad uno degli artisti lombardi operanti in Sicilia sul finire del secolo XV: Gabriele di Battista. Antonio Prone, Pietro de Bonitate, Bartolomeo Di Giovanni. I primi due, peraltro, nel 1486 avevano realizzato una acquasantiera per la cappella dei Marinai del santuario dell’Annunziata, ora al Museo Pepoli.

L’opera più rilevante che Antonello Gagini esegue per i Carmelitani è il grande arco marmoreo della cappella, ultimato dopo la sua morte dal figlio Giacomo nel 1537: ad Antonello viene riconosciuta dalla critica più recente (Gulisano 1995, pp.76-90) la concezione generale dell’opera, costituita da due pilastri laterali, ornati da cinque medaglioni per lato con figure di profeti, e sormontata da un timpano triangolare con Dio Padre, e la fattura dei rilievi di Salomone e Geremia  oltre che i volti degli altri profeti: a Giacomo vengono invece riferiti i decori e le rimanenti figure che presentano certe durezze nel modellato ed un «insistito calligrafismo nel panneggio» (Gulisano 1995, p.78).

I temi iconografici espressi nell’arco (con i Profeti che vaticinano la venuta del Messia, nato dalla Vergine) probabilmente fanno parte di un preciso programma spirituale, suggerito dal priore del convento Aloisio D’Ajuto, rappresentato fra i rilievi dell’arco, che fu il committente assieme ai Del Bosco, il cui stemma è sui plinti.

          Al culto mariano rimanda la scena dell’Annunciazione, icona cara ai Carmelitani in quanto esprime il senso e lo scopo della loro vocazione, mettendo in relazione l’eccomi dei Profeti, ai quali Dio aveva parlato nell’Antico Testamento, e il fiat di Maria.

Antonello aveva già trattato nel 1525, in termini rinascimentali, il tema dell’Annunciazione nel gruppo scultoreo eseguito per la chiesa del Carmine di Erice (ora nel Polo museale “Antonio Cordici”), su commissione del nobile Giacomo Pilati; a questo gruppo si ispireranno, vent’anni dopo, i figli Giacomo e Antonino per l’Annunciazione della chiesa dell’Annunziata di Alcamo, ora a Sant’Oliva.

        Mentre lavorava per Trapani e attendeva già dal 1510 alla tribuna della Cattedrale di Palermo, Antonello «non trascurava di accettare nuove commissioni, che, quando interamente eseguite di sua mano, continuano a risultare tra le sue cose più pregevoli» (Patera 2008, p.120), come «un gruppo particolarmente omogeneo»  di statue destinate alle chiese del territorio trapanese: la Santa Oliva di Alcamo (1511),  il San Tommaso Apostolo di Marsala (1516), il San Giovanni Battista di Castelvetrano (1522), il San Giacomo Maggiore di Trapani (1522), ora al Museo Pepoli. Fu sicuramente la fama delle sue capacità tecniche ed espressive ad indurre i Confrati di Sant’Oliva di Alcamo, il marsalese Pietro Anello, i religiosi del San Giovanni di Castelvetrano, i rettori della Compagnia di San Giacomo di Trapani a richiedere ad Antonello le suddette statue.

«Fra i lavori di maggior leggiadria ed eleganza» (Di Marzo 1880, I, p.286) si inserisce il trittico commissionato ad Antonello (1519) dall’amico Giovan Bernardo Mastrandrea per la chiesa Madre di Alcamo per la quale nel 1529 realizzerà anche il rilievo raffigurante Il transito della Madonna.

«Sono tutte opere, queste, che mentre denotano la piena maturità dello scultore, hanno in comune la delicata sensibilizzazione della superficie plastica, animata da risentite vibrazioni luministiche, nel continuo inseguirsi di ritmi curvilinei entro il nobile, equilibrato impianto della figura che contraddistingue le opere autografe da quelle realizzate con più o meno ampio concorso di bottega» (Patera 2008, p.122).

Ad Antonello, che è autore di numerose statue di Madonna con Bambino, spesso ispirate alla Madonna di Trapani, nel territorio trapanese viene soltanto attribuita una Madonna del Soccorso della chiesa di Sant’Agostino di Salemi, databile tra il 1520 e il 1524.

La devozione soccorrista, le  cui origini risalgono ad una presunta apparizione della Vergine al padre agostiniano Nicola La Bruna, a Palermo nel 1306, è stata in passato molto sentita nel trapanese ed ancor oggi Castellammare del Golfo ha come patrona la Madonna del Soccorso in onore della quale, intorno al 1630, il barone Alliata fece edificare una chiesa parrocchiale, corrispondente all’attuale chiesa Madre; a Salemi veniva invocata per la protezione contro i terremoti e le epidemie. Anche a Mazara, Alcamo, Calatafimi e Trapani Le erano dedicate chiese: in quella trapanese si trovava una statua cinquecentesca in alabastro, ora al Museo Pepoli.

A Marsala la famiglia La Liotta pose nella propria cappella del Duomo una statua marmorea, detta anche Madonna della Mazza perché Maria solleva con la mano sinistra una clava argentata, secondo l’iconografia della Vergine del Soccorso, per difendere il bambino ignudo e impaurito che le sta attaccato alla veste, simboleggiante l’intera umanità. L’opera è iconograficamente simile alla Madonna del Soccorso, ora nella chiesa Madre di Alcamo, ma proveniente dalla chiesa omonima, e precisamente dall’altare della cappella della famiglia Birritta, cui apparteneva Caterina, moglie di Vincenzo Oliveri che nel 1545 incaricò Giacomo Gagini di scolpire la scena della Natività nel piedistallo della statua, facendosi ritrarre in preghiera con la moglie (Regina 1969, pp.67-68).

La statua di Marsala viene riferita  al carrarese Giuliano Mancino, mentre quella di Alcamo a Bartolomeo Berrettaro; i due scultori nel 1503 si associarono ad Alcamo  dove tennero bottega e lavorarono insieme per circa 15 anni;  considerato il fatto che di solito le società tra artisti venivano contratte per l’esecuzione di una sola opera, il loro appare un sodalizio duraturo e singolare, anche per l’aspetto commerciale oltre che artistico, che ha determinato una vasta produzione di opere d'arte sacra e profana, monumenti celebrativi e commemorativi, portali, partiture architettoniche, cornici, capitelli, classicamente decorati. La quantità di opere, generalmente modeste, prive di fantasia e spesso ispirate al repertorio formale e tipologico di Domenico Gagini e Francesco Laurana, non consente di stabilire facilmente la paternità dell’uno o dell’altro artista, anche se, come ritiene l’Accascina (Accascina1959), le opere del Mancino risultano più raffinate.

Al Berrettaro (o più verosimilmente al Mancino) è anche attribuita la Madonna con Bambino della chiesa di San Carlo di Erice, ritenuta del Soccorso da Regina (Regina 1995, p. 45) perché Maria solleva il braccio destro impugnando un oggetto mancante, per la mela che il Bambino tiene in mano, simbolo del male, ed anche per il bassorilievo con San Michele in lotta con Satana nella predella. Identico gesto si nota in un’altra statua ericina, già nella chiesa del SS. Salvatore, ora nel Polo Museale, che fu oggetto di un curioso equivoco, riferito da Castronovo (Castronovo XIX secolo, p. 129): la statua fatta eseguire a Palermo (1549) dalla badessa del SS. Sacramento, Suor Caterina de Rais, a spese di Antonia Genitrapani, doveva rappresentare la Madonna di Custonaci, ma l’artista erroneamente iniziò a “ritrarre” una Madonna del Soccorso che venne comunque ugualmente accettata dalla committenza.

Per i La Liotta di Marsala presumibilmente è ancora Mancino (forse con la collaborazione di Berrettaro) a realizzare il sarcofago di Antonio, morto nel 1512, con la figura del defunto giacente sul coperchio e sei busti simboleggianti la Fede, la Pietà e le virtù cardinali, emergenti da robbiane. Il sarcofago, opera apprezzabile anche se non priva di talune incertezze nella resa delle pieghe e del corpo del defunto, è affine a quello di una gentildonna della chiesa palermitana di Santa Maria di Gesù (Accascina 1959, p. 331), e risponde all’uso rinascimentale di rappresentare il defunto dormiente sul coperchio, introdotto in Sicilia da Domenico Gagini: così lo ritroviamo nel “pittoricamente mosso” (Patera 2008, p. 48) sarcofago del cavaliere marsalese Antonio Grignano (1475) del Gagini, ora nella chiesa Madre (dalla chiesa del Carmine), e  nel monumento del vescovo  Giovanni Montaperto, realizzato dallo stesso scultore con esperta manualità tra il 1469 e il 1485 (già nella cattedrale di Mazara, ora ricomposto nel locale Museo Diocesano), nel quale il defunto è disteso sull’arca sepolcrale, retta dalle virtù cardinali e accompagnata dal Redentore, la Vergine, i quattro Evangelisti.

Ai nomi di Mancino e Berrettaro si associano alcune icone marmoree (1512-1513) ed in particolare al Mancino viene riferita quella del Duomo di Erice, ad entrambi quella della chiesa Madre di Calatafimi, le quali ripropongono il modello dei polittici monumentali rinascimentali toscani, o dei retabli spagnoli in pietra o marmo, largamente diffusi nella Sicilia occidentale.  

Berrettaro eseguì diversi portali ad Alcamo dove abitò con la famiglia fin dal 1499, anno in cui ricevette l’incarico di decorare il portale laterale della chiesa Madre, da parte del procuratore Stefano Adragna, a spese della chiesa; Berrettaro e Mancino forse lavorarono insieme al portale interno (1505) che collega la navata sinistra della stessa chiesa alla sacrestia.

Il 1509 è la data riportata sul portale dell’ex chiesa di San Giuliano di Trapani (ora al Museo Pepoli), attribuito al Berrettaro, suddiviso in tre pannelli per lato con scene riguardanti la vita del Santo, secondo uno schema compositivo che lo stesso scultore utilizzerà ancora nel 1525 nel portale della chiesa di Sant’Egidio di Mazara, ora in Cattedrale.

Le scene rappresentate nel portale trapanese si riferiscono alla leggenda del cacciatore Giuliano che, uccisi i genitori, si dedicò all’accoglienza e all’assistenza di poveri e pellegrini per espiare il peccato. Il culto del Santo fu diffuso a Trapani, Erice e Salemi, città nelle quali gli era dedicata una chiesa: a Salemi era molto venerato il simulacro che lo rappresentava in veste di cacciatore con il falcone, il mastino e la spada, pregevole opera di Domenico Gagini, già nella chiesa di San Giuliano, ora nel Museo Civico. Non vi è dubbio che l’iconografia delle statue rinascimentali, presenti a Trapani (Vescovado) e a Salemi, le scene del portale dell’ex chiesa di Trapani e la figura del Santo nell’ancona marmorea della chiesa Madre di Erice, facciano riferimento al Santo Ospitaliere, comparso in sogno, secondo la leggenda, al conte Ruggero nel 1076, la notte prima della cacciata degli Arabi da Erice, in sella a un cavallo bianco, con la spada ed un falcone sulla mano sinistra, mentre metteva in fuga i Musulmani.

Gebel Hamed, divenuta terra normanna, fu ribattezzata nell’anno 1167 Monte San Giuliano per devozione al Santo, detto “il liberatore”, la cui immagine fu inserita nello stemma cittadino. Secondo Vincenzo Adragna (Adragna 1986, p.16) il culto verso Giuliano, nel Medioevo protettore dei naviganti, fu introdotto ad Erice già prima dei Normanni per distogliere i viaggiatori e i marinai da persistenti legami con il culto pagano della Venere ericina.

Tornando al Berrettaro, sicuramente l'opera più rilevante ai fini della ricostruzione della sua attività nel trapanese è l'icona del Santissimo Sacramento della chiesa Madre di Marsala, che i confrati delle Quattro Maestranze – falegnami, fabbri, calzolai, sarti – gli commissionarono nel 1518; lo scultore nel 1519 si avvale della collaborazione del fratello Antonino che, un anno dopo la morte di Bartolomeo avvenuta nel 1524, si impegna a mandare a Marsala quanto già fatto dal fratello e a recarvisi personalmente con i collaboratori. Non conosciamo i fatti intercorsi tra il 1525 ed il 1528, né la causa per cui i committenti affidarono il completamento dell’opera ad Antonello Gagini il quale associò il figlio Giandomenico e si impegnò a consegnare l’opera nell’aprile del 1529; né si sa per quali motivi l’icona fu ultimata nel 1532. Dal risultato finale si desume che Antonello abbia lavorato con frettolosità, senza raggiungere i livelli qualitativi di altre opere, forse per l’incalzare della data di consegna o perché si trovava a reconzari di manu sua e rinettari et ampliari il modellato duro e legnoso del Berrettaro, evidente nel gruppo di sei Apostoli (Linares 1982, pp.69-60). L’opera nel corso dei secoli ha purtroppo subìto scomposizioni e modifiche e la lunetta di coronamento con la Pietà si trova ora al Museo Pepoli di Trapani (Novara 1997a, p. 238, Novara 1997b, p. 258-261).

Circa trent’anni dopo, sempre a Marsala, è Antonino Gagini a ricevere da Giovanni Pietro Manuele l’incarico dell’icona dell’Assunta per conto dei deputati della città, da porre sull’altare maggiore della chiesa Madre; allo stesso viene richiesta l’icona della Madonna dell’Itria (1564) per l’omonima chiesa (ora nella chiesa Madre), dal capitano di giustizia Giulio Alazaro, committente anche di un sarcofago nel 1566 (Novara 1994, pp.56-60). L’impianto arcaizzante della Madonna con il bambino, in posizione frontale, su un cassone portato a spalla da due eremiti, fu forse volutamente adottato dallo scultore per rispettare l’iconografia della Madonna che offre la sua guida ai fedeli (Odigitria da cui dell’Itria), derivante da un prototipo bizantino, il cui culto era diffuso a Costantinopoli fin dal V secolo.

Incerte sono le origini di tale devozione a Marsala: tradizione vuole che sarebbero stati i Santi Gregorio, vescovo di Marsala, e Demetrio, assieme ad un calogero, a portare dalla Calcedonia una copia dell’immagine, poi riprodotta (VIII secolo), ad affresco, sulle pareti della grotta tuttora esistente sotto la chiesa dell’Itria; secondo un’altra ipotesi fu invece il vescovo Pascasino (V secolo) ad introdurlo.

Un piccolo rilievo con la stessa iconografia si trova sul sarcofago (1573) di Gian Vincenzo Pellegrino, capitano dell’esercito di Carlo V, nella chiesa Madre di Alcamo.

Per completare il panorama della scultura lapidea nella provincia di Trapani vanno ricordate le numerose opere dei figli di Antonello Gagini e dei vari epigoni, oltre che di Gabriele di Battista e Baldassare di Massa, che testimoniano una feconda produzione, non sempre suffragata da risultati eccellenti.

Giacomo Gagini porta a termine le opere del padre e lavora a Trapani e soprattutto ad Alcamo con il fratello Antonino; per San Vito lo Capo, la città dedicata al Santo martire di presunta origine mazarese (IV secolo), che aveva sostato a Capo Egitarso, esegue nel 1587 una statua per il santuario, rispondente all’iconografia di San Vito, che lo vuole giovane con due cani (Messana 2008, p.78), e scolpisce nella base episodi legati al soggiorno del Santo nella cittadina; la particolare levigatura che oggi presenta nei piedi è dovuta alla secolare usanza, da parte dei pellegrini, di “baciare i piedi del Santo” in segno di devozione.

Stessi caratteri iconografici si ritrovano nella statua facente parte di un gruppo con i Santi Giacomo Minore e Filippo di Vincenzo Gagini, dell'oratorio della Confraternita di San Giacomo di Trapani, ora nel Museo Pepoli.

Altre opere di Vincenzo si trovano a Mazara e Marsala.

Antonino lo troviamo impegnato in opere per Trapani e Mazara: qui completa il gruppo marmoreo iniziato col padre Antonello, la Trasfigurazione sul Monte Tabor, con Gesù Trasfigurato, Mosè ed Elia e i Santi  Pietro, Giacomo e Giovanni, che costituisce l'altare maggiore della cattedrale.


Alla relazione ha fatto seguito un dibattito che ha visto la partecipazione di molti dei presenti in sala ed al suo termine sono seguite alcune comunicazioni organizzative.

Il Prof. Valenti, in merito all'escursione di un giorno a Palermo prevista per il 29 ottobre p.v., ha comunicato che la partenza è stata fissata alle ore 07.30 da Piazza Vittorio Emanuele e qualora ci fossero state altre adesioni esse avrebbero essere fatte nel più breve tempo possibile. Quota di partecipazione, bus e pranzo in ristorante compreso,  Euro 50,00 ( cinquanta/00 ).

La Prof.ssa Novara ha invece gentilmente comunicato, invitando nel comtempo i presenti a parteciparvi, che nell'ambito delle attività dell'Associazione da lei presieduta:
-  il giorno 29 ottobre 2017 alle ore 18.15 nella restaurata Chiesa di S. Francesco d'Assisi in Trapani avrà luogo la ricollocazione virtuale dei  coralli aappartenenti all'edificio sacro ed attualmente custoditi presso il Museo Pepoli di Trapani
- ricorrendo domenica 26 novembre 2017 il decennale della fondazione dell'Associazione da lei presieduta sono state predisposte una serie di attività delle quali farà pervenire in tempo utile il programma elaborato.

In chiusura dell'incontro, prima dell'arrivederci a sabato 28 ottobre 2017 alle ore 18.00 nei locali dell'Associazione per il prossimo appuntamento previsto dal programma delle attività del XXXI  Corso di Cultura, il Prof. Valenti ringraziando la Prof.ssa Novara  per la sua partecipazione le ha regalato il libro di E: Milana '' 33 cunti - tra le vele del tempo e della storia ''.

Switch to Day Switch to Night